È bene partire da una premessa: nessun essere umano, dotato di normali facoltà psichiche, può essere influenzato da un libro, un film, un videogioco, al punto di commettere un’azione delittuosa. O almeno io ne sono convinta. Non mi riferisco ovviamente a manifesti d’odio, o libri esplicitamente nati con l’intento di deviare e inculcare, ma alla narrativa. Questa riflessione parte da una scoperta che definirei agghiacciante: Alice, la dolce Alice parto della mente di Lewis Carrol, è utilizzata come simbolo delle campagne a favore della pedofilia. Orgoglio pedofilo, l’ossimoro più forte in cui mi sia mai capitato di imbattermi. A causa delle voci che circolano sull’autore del libro, tacciato di essere un molestatore di bambini e di aver dedicato il suo “Alice nel paese delle meraviglie” proprio ad una sua omonima giovanissima vittima, la figura di Alice è stata attratta in questo mondo di orchi in carne ed ossa, al punto di aver ispirato la creazione di una “Giornata di Alice”, il 25 aprile, organizzata negli Usa per chiedere l’abbattimento dei limiti stabiliti per legge per poter esprimere il consenso ai rapporti sessuali. Nello specifico la bambina che cade in un buco e si ritrova in un mondo fantastico e allucinante diventa la figura di riferimento per coloro i quali si autodefiniscono girl-lover, coloro che prediligono cioè le bambine ai bambini, e che osano fare una differenziazione tra loro e i pedofili-molestatori, come appartenessero ad una categoria a parte, migliore dell’altra. Anche queste bambine cadono in un buco, nero come il fondo della notte più nera, e non è certo l’idea che i pedofili usino un simbolo di innocenza come l’Alice letteraria a farne esseri peggiori, quanto forse scoprire che navigando in rete tra forum e gruppi chiusi che riportino questo nome potrebbe capitare di imbattersi nell’orrore. I mostri si sono appropriati con la frode di un personaggio caro alla nostra infanzia, quella stessa infanzia che minacciano ogni giorno. Ritenere che sia Alice a chiedere l’abuso è non solo raccapricciante, ma oltraggioso, e che il libro sia considerato d’ispirazione è un abominio. Attenti solo a non cadere nel trucco di chiamarli pazzi, maniaci o psicopatici. Sono uomini normali, trattenete il disgusto, che scelgono di seguire orrende pulsioni e fare del male. Lo sconto della follia non può essergli fatto. Non è perciò il libro né l’autore ad aver ispirato con la sua opera, ma l’uomo ad aver scelto arbitrariamente un vessillo.
Pazzo era invece l’uomo che decise di cancellare dal mondo, ma trasfigurare in leggenda, John Lennon l’8 dicembre del 1980. L’autore dell’assassinio, Mark David Chapman, dichiarò infatti di essere stato fortemente influenzato dalla lettura de “Il giovane Holden” di Salinger.
Come lui, dichiarò lo stesso debito di ispirazione l’uomo che tentò di uccidere Ronald Reagan. Un manifesto quindi per l’odio, un libro che ispira comportamenti antisociali? Salinger ha raccontato con maestria un disagio nel quale io, all’epoca della lettura adolescente, mi sono facilmente ritrovata, non ho mai però pensato seriamente di sparare a qualcuno né prima né tantomeno dopo averlo letto. Holden Caulfield era un ragazzino arrabbiato, questi erano invece adulti per cui era fin troppo facile entrare in possesso di un’arma. Non all’autore sono imputabili i fatti delittuosi, quanto alle lobby delle armi, alla prima potenza mondiale che si fa soggiogare da queste, a un modello culturale bigotto, puritano e frustrante, non dimentichiamo infatti che Chapman non perdonava a Lennon le sue dichiarazioni atee e contro le religioni.
Non tutto è altrove però. Due sono i casi italiani, di due epoche lontane, che credo possano in qualche modo rientrare in questo schema di fasulla ispirazione. Nel febbraio del 1958, a Torino, un ragazzo di 28 anni fu ucciso da un assassino che, in segno di sfida agli inquirenti e per far sì che il delitto fosse scoperto, aveva inviato una lettera alla redazione di “Stampa Sera” firmandosi Diabolich. La peculiarità? Diabolic era il nome di un personaggio del libro “Uccidevano la notte” di Bill Skylin, edito da Garzanti ed in vendita nelle edicole in quel periodo, e l’assassino, quello reale, se ne era appropriato aggiungendovi un’acca. E le missive proseguirono per molto tempo creando una paura serpeggiante nel capoluogo piemontese, fino all’ultima lettera nella quale Diabolich, quello in carne e ossa, rassicurò circa il fatto che il suo delitto non prevedeva bis. Il delitto rimase irrisolto, pur avendo prodotto comunque delle conseguenze: fu proprio da questo delitto che nacque il celebre Diabolik, quello con la k. Il narcisista omicida prese ovviamente non spunto dal libro, ma solo colse l’occasione di farsi maggiore pubblicità.
Meno romanzesco, a dispetto di quel che potrebbe credersi, l’episodio dell’anno scorso a Vibo Valentia. Diciotto ragazzi, di cui quattro minorenni, dopo aver compiuto numerosi furti in appartamento, hanno attribuito la paternità morale delle loro gesta alla serie televisiva “Romanzo Criminale”, tratta dall’omonimo romanzo di De Cataldo. Anche in questo caso sono più propensa a credere che una società che incensa i furbi, che disprezza gli onesti, che inneggia al turpe di turno come al coraggioso self-made man, sia la responsabile, non certo una biofiction, cosa che mi è parsa fin dal principio il romanzo di De Cataldo. Un ottimo libro cui, forse, film e serie tv, non hanno reso del tutto giustizia, trasformando i componenti della banda della Magliana in oscuri eroi.
Ma è questo forse il punto, un libro racconta, un libro consente pensieri, viaggi e avventure inimmaginabili, ma solo nella fantasia. Se poi qualcuno sceglie le vie dell’illegalità non si può dar colpa all’inchiostro. Ognuno sceglie la sua morale, salvo poi dover accettare le conseguenze. Tutte.