«Che chiavica di squadra» borbottava tra sé e sé Ferini mentre usciva con il borsone sulle spalle, attento a non sbattere come sempre sullo stipite della porta. Per uno come lui, che aveva calpestato l’erba della serie B, trovarsi in promozione non era il massimo della vita. Ma la crisi vale anche per i calciatori, nessuno paga più come una volta, quindi l’importante è che quel qualcuno paghi: ora si trovava anni luce dal professionismo, nonostante gli spettasse di diritto per la tecnica fuori dal comune che dimostrava in campo, ma riceveva il suo stipendio da operaio specializzato con puntualità e la domenica correva sulla fascia di uno degli stadi più belli d’Italia. La Triestina era fallita ormai anni fa, continuava a navigare tra Promozione ed Eccellenza senza riuscire a sollevarsi: il risultato era che allo stadio Nereo Rocco, capolavoro architettonico da trentamila posti, il clima era simile alla vicina Risiera di San Sabba. I tifosi l’avevano sempre chiamata l’Unione, cantavano la “Bavisela” dopo le vittorie e tutti conoscevano a memoria i versi di Saba:
Anch’io tra i molti vi saluto, rosso- alabardati,
sputati
dalla terra natia, da tutto un popolo
amati.
Incitamento ben più nobile di un qualsiasi Ale-oh-ooh o della consueta sciarpata da curva, no? Beh, mentre girava le chiavi della sua mesta Skoda nel nottolino dell’accensione, la risposta era: no. Meglio la sciarpata, di Saba. Sempre meglio uno stadio pieno di uno vuoto. E soprattutto, meglio lottare per qualcosa di serio piuttosto che essere quinti in promozione all’ultima di campionato, da giocare senza il minimo stimolo contro l’inutile Manzanese. Anche quest’anno l’Unione non ce l’avrebbe fatta, niente salto di categoria, e la colpa era ovviamente di quella banda di brocchi che aveva intorno. Lui era stato terzino del Padova in B, aveva fatto un sombrero a Miccoli, quando poteva crossava con la rabona, correva i cento metri in dieci e zerocinque, poteva vincere da solo: e invece perdevano comunque, segno che i suoi compagni erano troppo scarsi anche per lasciarlo vincere in pace. Un’agonia. Come al Padova, dove litigava ogni due giorni con qualcuno. Cavallo Pazzo, lo chiamavano: capirai, con la sua classe non poteva permettersi un po’ di estro? Ah, ma l’anno prossimo, pensava ormai a due chilometri dal Rocco, l’anno prossimo si cambia. Basta alabardati, squadretta di campagna ormai: non vi basterà una cattedrale nel deserto, Rocco e Grezar per farvi rimanere nel calcio che conta. Mollo tutti, vado in vacanza in qualche nazione calcisticamente scarsa e cerco un ingaggio in serie A locale. Cipro, tipo, che ogni anno c’è la squadra di Cipro che salta fuori ai tornei che contano. Naaa, lì è un casino fiscale. Malta? Ecco, Malta. Dai, gli Sliema Wanderers vuoi che non vogliano uno come me? Ho 29 anni, sono al top della forma, ho un curriculum clamoroso. E metti che imbrocchiamo l’anno buono c’è l’Europa League, sai mai che passiamo i preliminari e ci troviamo nel gironcino iniziale! Pensa che storie: Wanderers, Atletico Bilbao, Lazio, Braga e Borussia Dortmund. Uh, contro il Borussia! Sgroppate sulla fascia e tackle volanti contro stelle da nazionale: lì sì che sarebbe il mio posto! Nereo, te son finì. Altro che paròn!
All’ultima curva prima del Rocco, Ferini faceva sempre un giro veloce davanti alla curva ospiti, sperando sempre di trovarci qualcosa di meglio di un crocicchio di vecchi e ragazzini con tre bandiere sbiadite: non è che l’Azzanese o il San Daniele avessero i Drughi o la Torcida, va’, ma vassapere. Invece quel giorno, svoltato l’angolo, rimase a bocca aperta. Tutto il parcheggio era transennato, c’era polizia ovunque. Ci saranno state almeno diecimila persone, tutte giallonere e incazzatissime. Bandiere con il noto stemma del Borussia Dortmund garrivano possenti su tutto il piazzale, un altoparlante incitava la folla con un vigoroso tedesco filtrato sulle medie frequenze. Uno tra tutti lo scorse a bocca aperta nella macchina e lo additò urlando: «ACH SO, FERINI! DA DRÜBEN! KOMMT IHR, AAAAAAH!» e una turba di crucchi del Borussia assaltò la sua macchina spingendola a spallate. Ferini era bianco come un cencio quando tre poliziotti in assetto antisommossa lo liberarono aprendogli un varco. La Skoda si fiondò verso il suo settore e parcheggiò, Ferini chiuse la macchina e correndo come se non ci fosse un domani si gettò nello spogliatoio “Casa”. Si chiuse dietro la porta nel silenzio, era il primo ad essere arrivato: l’aria era piena del suo respiro affannoso, mentre il cervello saettava senza direzione: ma come, e la Manzanese? L’inutile ultima di campionato? Impossibile, il Borussia non era… cioè…
«Ciò, toco de mona!».
Un vocione tuonò dalla panca di fronte. Un manzo enorme, sulla sessantina, tutto mascella, lo squadrava pacioso ma deciso.
«Te son de Padova, proverò a dirtelo in taliàn: ogni partita ha lo stesso valore. Non conta quel che ti pagano, dove giochi o a che livello. Conta come lo fai. Altrimenti te pol far el bechèr: mi go preferì el balòn. Ara ti, sti zovini». E detto questo, si alzò e uscì.
Calò il silenzio su tutto il Rocco.
Quando parla el Paròn, tasi tuti.