Viola, amore mio, se stai leggendo queste righe è perché non ti potrò spiegare quello che vorrei, raccontarti quello che è stato. Ognuno di noi si porta addosso delle ferite che non guariscono. Avrei desiderato guarirle con te, perché tu non commettessi i miei stessi errori. Mi sarebbe piaciuto continuare a tenerti per mano. O forse avrei voluto che tu tenessi la mia. Ti voglio bene, più di quanto potrai mai capire. Il tuo papà
“Ti volevo dire” è il titolo del romanzo di Daniele Bresciani; è la storia di Viola, del suo mutismo dopo aver ritrovato Giacomo, il padre, morto nel suo letto; è la storia di lettere e diari di un passato non troppo lontano che nasconde un segreto.
Ti volevo dire… e non sono riuscito a farlo; sembra questa la conclusione della frase, una frase che tutti, almeno una volta nella vita, hanno pronunciato a qualcuno o, ancor peggio a se stessi, per mancanza di coraggio, per paura di svelarsi. Tre parole che affascinano e incutono timore perché si portano dietro la sofferenza del non riuscire ad esprimersi. Mancano le parole a volte, oppure, sono così tante che una sola bocca non riesce a contenerle, vorrebbero esplodere ed invece restano in quel tempo all’imperfetto come chi, a pochi passi dal traguardo, arresta la sua corsa. Per Viola invece le cose sono diverse: a quattordici anni, una mattina si sveglia per andare a scuola, come tutte le mattine ma il padre stavolta non è lì pronto ad accompagnarla. Il padre è morto. Le parole di Viola si bloccano, in quello che poi le viene diagnosticato come mutismo selettivo.
“Io sono normale: solo che sto zitta. La mia voce se ne è andata. Non un suono, neanche la strana cantilena nasale dei sordomuti o il gracchiare di chi è stato operato alle corde vocali. Ho visto tutti questi tipi di problemi negli infiniti controlli con non so quanti specialisti. Non ci sono difetti apparenti: è come se le parole si fermassero prima di arrivare alla gola, come se non volessero uscire dalla mia testa”.
Viene mandata dalla madre in una scuola svizzera con la speranza che possa, in un clima tranquillo, ritrovare l’equilibro e superare il trauma. Un vecchio amico del padre le regala delle cose appartenute a Giacomo: delle lettere, due agende e un libro. Da queste letture Viola scopre l’amore giovanile del padre per una donna misteriosa, durante il suo soggiorno a Londra e la sua sofferenza per la fine, forse dovuta ad un abbandono, della sua storia d’amore. La ragazzina si avvicina al padre: anche lui, come lei, usava foglio e penna per esprimere i suoi sentimenti; Certo il mutismo di Giacomo non era “sociale” ma il silenzio di Viola ha tanto in comune con quello giovanile del padre. Chiusa nel collegio, Viola ripercorre tutte le tappe della vita del padre, misteri inclusi.
“Ti volevo dire” si presenta anche come romanzo di formazione: due vite intrecciate, una comunicazione apparentemente impossibile che invece ha luogo, lì nella lettura di Viola delle lettere scritte da Giacomo. In fondo si scrive per un motivo: per condividere le proprie emozioni con un foglio che chissà, forse un giorno verrà letto da qualcuno. Quel qualcuno per Giacomo è la figlia. In un’alternanza di prima e terza persona Bresciani regala ai lettori una storia commovente sulla difficoltà di comunicare agli altri i propri sentimenti, le proprie emozioni. E quel ” ti volevo dire” diventa la promessa che le parole vanno oltre la morte.