Con il primo conflitto mondiale, il mondo di ieri crolla ma quello di domani non è ancora pronto a nascere. Come scrive Massimo Bontempelli: “L’Ottocento non poté finire che nel 1914. Il Novecento non comincia che un poco dopo la guerra”.
Non solo la catastrofe bellica ma soprattutto il crollo di quei sistemi a cui si erano opposte strenuamente le avanguardie, nella loro propensione all’incendiarietà e all’azzeramento, fanno emergere nuove necessità. La proposta del nuovo, tuttavia, ha senso solo se sussiste un vecchio a cui contrapporlo.
La realtà è stata scomposta, sospesa, astratta, scarnificata e, con la guerra, ormai ridotta a reliquia e a maceria: bisogna lavorare per ricollocarla, rimetterla in ordine, in un sistema che sia immune allo scorrere del tempo e allo sconvolgimento dei movimenti del pensiero e della politica, verso “una solida geometria di oggetti, una nuova classicità di forme”.
È il recupero di quei Valori Plastici (rivista pubblicata tra il 1918 e il 1922 a Roma, curata dal pittore e critico Mario Broglio, a cui collaborarono anche Giorgio De Chirico, Alberto Savinio, Giorgio Morandi) nei quali Carlo Carrà pensa di incanalare “il bisogno d’immedesimazione con le cose e il bisogno d’astrazione” che “è nella storia dell’arte italiana fin dai tempi di Giotto”. Tuttavia, nella volontà di recuperare e preservare questa volumetria degli spazi e delle forme, origine del “principio italiano”, si perde di vista la modernità che Giotto e gli altri primitivi rappresentarono rispetto alla pittura gotico-bizantina e la funzione educativa e storiografica della pittura dell’epoca, ricadendo in una sorta di accademismo.
A risolvere l’empasse ci pensa la radicalizzazione di Novecento, movimento che si costituisce nel 1922 a Milano dapprima tra sette pittori (Leonardo Dudreville, Achille Funi, Gianluigi Malerba, Piero Marussig, Ubaldo Oppi, Anselmo Bucci e Mario Sironi), guidato dallo stesso Anselmo Bucci e ispirato da Margherita Sarfatti, collaboratrice del Popolo d’Italia, giornale ufficiale del Partito Fascista, inteso come “atto di orgoglio” e “di fede”, in cui l’elemento originario e nazionalistico diventa di regime (la Prima permanente del 1926 è inaugurata da Mussolini), immaginando un futuro in cui, per usare le stesse parole della Sarfatti, “la parola Novecento risuoni gloriosamente come il Quattrocento”.
Poiché il novecentismo pittorico emerge con anticipo rispetto al novecentismo letterario, quando Massimo Bontempelli, “autore cioè inventore, organizzatore e direttore” nel 1926 di 900 , ne dà la definizione (dopo la lettera d’intenti a Carlo Carrà in cui espone la sua poetica che supera Futurismo e Neoclassicismo), precisa che il termine Novecentismo sottolinea le tendenze che distinguono il tempo presente dagli ultimi anni del secolo precedente, in poche parole il “conflitto tra idee vecchie e idee nuove”. Nella sua visione, i due secoli appaiono complementari e opposti perché se l’Ottocento è “il secolo dell’osservazione, dell’esattezza descrittiva, dell’amore alla vita quotidiana; può chiamarsi il secolo della realtà. Il nostro secolo dovrà chiamarsi secolo della fantasia”.
E ancora: “Novecentismo è una battaglia per la fantasia, per l’arte che soprattutto diverta e sorprenda, per l’arte che sappia vedere la vita come una grande avventura piena di sorprese, di rischio, di mistero. “
Lo strumento per liberarsi dal vecchio è, evidentemente, la fantasia ma una fantasia nuova che, ruotando attorno alla realtà, le conferisca un alone magico. “Niente mille e una notte. Piuttosto che di fiaba abbiamo sete di avventura”, scrive. L’obiettivo è imprimere a questo realismo magico “il suggello mediterraneo” e “mandarlo a conquistare il mondo” e tutto questo mentre il regime è proiettato ad un’arte concreta e virile.
La serie di 900, Cahiers d’Italie et d’Europe (1926-1929), esce in francese non solo per ottenere maggiore diffusione ma per dare all’Italia la possibilità “d’inserirsi nel clima dell’Europa, al di sopra di ogni provincialismo scolastico”. Proprio questa tendenza europeista è al centro del dibattito tra strapaesani e stracittadini. “Noi si è moderni sul serio perché si è antichi sul serio. Per rivivere l’antichità, per vivere la modernità (più si è antichi, più si è moderni, perché la modernità è il frutto dell’antichità) bisogna essere puri, sereni, schietti, italiani ad oltranza, profondamente paesani, classici e moderni, cioè fascisti perfetti. “ scrive Curzio Malaparte, prima condirettore con Bontempelli di 900, poi passato dalla parte opposta, insieme ai sostenitori dello Strapaese.
Gli uni a difesa della fantasia, gli altri a difesa dall’ambiente, stapaesani e stracittadini convivono, ugualmente italiani, in un’atmosfera di fusione tra arte e politica ben restituita dalla mostra “Novecento. Arte e vita in Italia tra le due guerre” (Forlì, Musei San Domenico, fino al 16 giugno). È l’arte delle commissioni pubbliche, della pittura murale, della scultura e dell’architettura monumentale degli edifici di stato che entra nel quotidiano ridefinendo ogni aspetto della realtà, permeandolo, con la sua natura nazionalpopolare, dalla grafica all’arredamento, dalla cartellonistica pubblicitaria all’abbigliamento. Ma è anche l’arte in cui novecentismo pittorico e novecentismo letterario trovano il punto di contatto nell’elemento magico di Antonio Donghi o di Cagnaccio da San Pietro che si contrappone alla classicità in versione fascista del primo Mario Sironi.
Come scrive Bontempelli: “La guerra ha scavato l’abisso. Il ’19 è l’albore del ‘900. Il tentativo di noi Novecentisti è per l’appunto cogliere, nel campo dell’arte, in questo ammasso di vecchio e di nuovo, di vita e di malmorto, di sterile e di fecondo, ciò che è il nuovo, il vitale, il fecondo. Determinare l’atmosfera atta a creare le forze per la nostra vita di domani. Ecco: il Novecentismo non è che questo: creazione d’atmosfera”.