Mentre molte mie coetanee costruivano il loro futuro incerto studiando o lavorando, io già seguivo i dettami del mio: sapevo con chi avrei passato i miei giorni e cosa avrei fatto. Il mio compito era assisterti mentre impazzivi giorno per giorno, partecipare alla tua logorante malattia. I comportamenti anomali e inquietanti che inizialmente mi spaventavano cominciarono piano piano a tratteggiare i sintomi della tua malattia: tutto trovava una spiegazione, le tue fughe da casa mia ed i ritorni improvvisi presero un senso alla luce della tua sofferenza. Non era colpa tua, non eri tu quello che tirava pugni contro il muro o imprecava contro di me, ma una voce che da dentro ti mangiava tutto.
Per quanto ci facessimo del male a vicenda – tu mi amavi a metà ed io lo facevo fin troppo – stare insieme era quasi un dovere, perché il solo pensare all’uno senza l’altra costituiva una minaccia alla nostra serenità: e quindi era meglio per entrambi soffrire insieme, che farlo di più in solitudine. Anche se tu non capivi il mio amore: pensavi che nulla fosse gratuito, che prima o poi avresti dovuto pagarmi, e tu eri povero, di portafoglio e di cuore. Il tuo malessere ti aveva reso arido, s’era bevuto soldi e sentimenti.
Imparai con il tempo a dormire la notte senza aspettarti, ad abituarmi alla porta di casa che facevi sbattere quando indignato per un nonnulla te la chiudevi alle spalle: un rumore netto, assoluto, che perforava il silenzio della cucina.
Fui forte; digrignavo i denti per sopportare le tue urla ed i rimproveri. C’erano giorni in cui, senza dir nulla, mi mettevo carponi sul pavimento, a raccogliere i cocci dei bicchieri che avevi scaraventato violentemente a terra, a riparare ciò che tu distruggevi. In altri, più fortunati, piangevo senza farmi sentire.
Mi addossavo i tuoi problemi senza alcun tipo di remore, come un dovere, un castigo autoimposto: interrompevo le mie attività quotidiane per accertarmi che avessi preso le medicine o che non ti fossi ammazzato.
Capitava che fossi in coda alla posta o a fare la spesa e ad un certo punto mi accorgessi che non avevi ancora preso le tue pastiglie, che quel giorno ce n’eravamo dimenticati entrambi: in quei momenti mollavo tutto così com’era, mettevo il mondo tra parentesi e fuggivo a casa, aprendo con mani tremanti il cassetto delle medicine e facendotele ingollare. Sembravi un bambino ed io una madre disperata.
Noi riuscimmo ad essere una coppia a tutti gli effetti. Lo facemmo nonostante la malattia e l’inesperienza, la paura e il destino avverso, le ristrettezze economiche e i litigi frequenti. Se si presentavano cento problemi, noi trovavamo sempre la centunesima soluzione per tirare avanti.
Ti amavo per le tue mancanze, per i tuoi capelli sudati ed appiccicati alla fronte, per i tuoi occhi liquidi e trasparenti come l’alcool che ti scorreva nel corpo nelle notti insonni, per le scuse che mi porgevi, per le lacrime che sgorgavano miti dai tuoi occhi quando durante la notte ti prendevano delle fitte intercostali. Per i perenni rimproveri e per i diminutivi nei quali subito dopo mi ficcavi: tesorino, cucciolo, gattino. Mi facevi sentire a casa quando nel tuo cuore spariva l’ira e cadeva la bonaccia. In quei momenti ero così felice – mi sentivo imbattibile – e piangevo di gioia, perché vederti star bene era un traguardo raggiunto da entrambi mano per mano.
Ma sai, amarti non bastava. L’amore non era la cura, ma solo una breve interruzione dei tuoi deliri. La silenziosa speranza che prima o poi ci saremmo risvegliati da questo incubo.
Ricorrevo al silenzio quando le mie parole avrebbero potuto compromettere una serata al cinema, alla sopportazione quando davi di matto, al coraggio quando rimanevi chiuso in bagno per ore e poi uscivi con una lametta in mano ed il sangue gocciolava dal tuo polso, in volto occhi vitrei ed impassibili. Morti.
Dovrebbero farti santa, dicevano gli amici, senza mai domandarmi se stessi bene, come facessi ad issarmi sulle spalle responsabilità pesanti come piombo. Stavano chiusi nei loro cappotti o in frasi comodamente vaghe, credendole lenitive: prima o poi finirà, starai bene, non farti prendere dall’agitazione. Non sapevano che avevo imboccato un tunnel buio ed infinito, che lì non c’era luce, che chissà se mai l’avrei vista.
Mia madre aveva deciso di non parlarmi più: ti ho avvertita che dovevi stargli lontana, ma non mi hai ascoltata, ora ti aggiusti, furono le sue parole prima di voltarmi le spalle.
Mio papà c’era solo quando avevo bisogno di qualche euro o di un abbraccio appassito, che moriva ancor prima che aprisse le braccia.
Io vivevo praticamente da sola, in una casa che puzzava di vomito, con te che urlavi di rabbia per tutto il giorno oppure passavi ore a dormire placido sul letto. Ogni tua azione dipendeva da quanto stessi male, nessuno dei due poteva prevederla.
Quando il sole calava e si faceva sera ti guardavo silente nel divano, con in mano il telecomando e il volto tutto concentrato su un documentario scientifico o uno stupido talk-show: pensavo che tutto sommato saremmo stati felici, che finché avessi preso le medicine avremmo vissuto bene insieme, che forse amare voleva dire rimanere al tuo fianco anche quando sarebbe stato più facile mettermi in salvo.
Ciò che più amavi era l’astronomia. Ti piacevano i pianeti, osservavi le stelle con il telescopio, te ne regalai uno io. Uscivi di casa quando meno me l’aspettavo e raggiungevi il giardino. Rientravi dopo un’infinità di tempo, soddisfatto e sorridente come un bambino. Ti domandavo cosa avessi visto, se ti fosse piaciuto, anche se a me non interessava: non ci capivo niente. Ma era bello sentirti parlare, vedere i tuoi occhi brillare.
In quei momenti pregavo Dio perché attimi come quelli potessero protrarsi nel tempo, non finire mai. Rientravamo in casa per parlarne meglio. Io mi stringevo nel mio maglioncino e tu, dietro di me, continuavi a parlare a raffica, gesticolando. Assorta nei tuoi discorsi, mi capitava di soffermarmi sul tuo collo, sulle curve delle tue orecchie, sul taglio degli occhi e talvolta sorridevo. Mi prendevi per matta, non potevi capire come fossi in estasi, come fosse bello sentirsi in una coppia normale.
Pregavo tanto per te e per noi, perché ero cresciuta con la convinzione che Dio fosse un signore barbuto che sedeva in cielo e potesse fare ciò che noi umani non siamo in grado di compiere. Ma tu non credevi in lui, perché in quel cielo nero c’era spazio soltanto per le stelle.
“Mi stai ascoltando?”, domandavi, mentre io arrossivo con lo sguardo appoggiato sulla tua camicia per metà sbottonata.
Ed i tuoi occhi indagatori, lagunari, incollati su di me, mettevano a tacere i miei pensieri.
Sospiravo. “Sì che ti sto ascoltando. Vai avanti…”
E tu andavi avanti.
Ti ricordi quando volammo a Parigi? Lo desideravamo tanto e così avevo fatto il possibile per racimolare qualche soldo e poi partire. Avevo lavorato per diversi mesi in un ristorante come cameriera: ficcavo frettolosamente in tasca le mance che uomini dalle camicie inamidate mi porgevano e talvolta rubavo qualche soldo dalla cassa. Il proprietario se ne accorse, minacciò di denunciarmi se mi fossi ancora presentata là.
Trovammo un last minute rivolgendoci ad un’agenzia di viaggio. Tu mi aspettavi fuori, impaziente, con la sigaretta in bocca; io esortavo la signorina dall’altra parte della scrivania a trovare le offerte più vantaggiose.
Organizzammo il tutto in meno di una settimana: preparammo le valigie alla bell’e meglio, infilai tutte le medicine in un beauty case e raggiungemmo l’aeroporto in taxi.
Alloggiammo in un hotel a due stelle, dalle stanze discretamente arredate: si mangiava bene, il personale parlava anche italiano.
Ci amavamo tutte le notti nella camera d’albergo, svegliandoci al mattino con le braccia attorcigliate, i nostri corpi aggrovigliati, le lenzuola che aderivano perfettamente ai nostri corpi. E poi uscivamo a fare compere, a visitare i posti più caratteristici seguendo nessun itinerario. Salivamo sui mezzi pubblici senza pagare e ridevamo forte, perché ci divertiva, perché ci sentivamo bambini, ci sentivamo stronzi.
Io ricordo quella gita perché fu durante quel soggiorno che tu desti i primi segni di squilibrio mentale. Fu lì che la malattia ti azzannò, fu in quelle quattro mura che tu impazzisti.
Eravamo tornati in albergo dopo un pomeriggio di pioggia e lacrime. Le strade erano tutte bagnate ed io scivolai sulla ghiaia, ferendomi il ginocchio. Piansi molto, quel pomeriggio. Tu eri impacciato, non sapevi cosa fare, nei paraggi non c’era nessuno, i telefonini erano nella nostra stanza, il sangue ti faceva impressione. Mi prendesti in braccio e mi portasti fino in albergo, dove poi mi medicarono.
Mentre stavo sul letto con la gamba dolorante tu entrasti in bagno per farti una doccia. Attesi mezz’ora, un’ora, ma la porta rimaneva sempre chiusa e uno spiraglio di luce si proiettava sulla moquette: eri ancora lì.
Zoppicai fino a raggiungere il bagno. Entrai e ti vidi immerso in una pozza di sangue. Avevi battuto la testa, ti usciva sangue dal naso, dalle orecchie, ma eri ancora vivo e soprattutto cosciente. Allarmato forse dalla mia presenza ti alzasti in piedi di fretta e furia, ma poi ricadesti a terra pesantemente, come un grido di spavento.
Composi il numero della reception mentre tu soffrivi in silenzio: non una lacrima, non un lamento. Sembrava che stessi bene e che la malata fossi io.
Attesi i soccorsi con la schiena appoggiata allo stipite della porta del bagno, con il cuore che faceva salti mortali nella mia gola.
Ricordo il tuo respiro pesante come strappi dolorosi, il mio pianto di rimorso per non aver aperto la porta del bagno prima, le lacrime che scivolavano trasparenti dai miei occhi come mondi perduti.
Le enciclopedie la chiamavano schizofrenia, i medici disturbo bipolare. Ti rinchiusero per due anni in una clinica privata, io facevo chilometri e chilometri di strada per venirti a trovare, per sentirmi dire dai medici che ti comportavi bene, che in te non c’era nulla di allarmante.
Moristi il 23 gennaio 2011. Il tempo di farmi una doccia e tu ti impiccasti in salone. Nessun biglietto d’addio, nessun rumore. Te n’eri andato in silenzio, dondolandoti su di un lenzuolo immacolato.
La cerimonia funebre fu breve e dolorosa. Non venne quasi nessuno, se non i vicini di casa e qualche mia amica, imbarazzata di incontrarmi in una circostanza del genere. Vennero lette le poesie di Alda Merini, perché ti piacevano, le conservavi tutte.
Sulla pietra tombale nessuna croce, soltanto una stella.