Mario e Maria erano sposati da quarantadue anni. Vivevano in un condominio enorme in via V.E. Orlando a Gratosoglio, periferia sud di Milano. Dieci anni fa Mario aveva cominciato a dimenticare il nome di alcuni oggetti, piccole dimenticanze cui Maria non aveva fatto caso.
Solo un anno dopo, quando lui aveva indossato gli abiti sul il pigiama e poi stava mettendo sopra un terzo paio, Maria si era preoccupata. La diagnosi era stata Alzheimer.
Con le medicine era rimasto a casa ancora qualche mese, con lei che lo accudiva. Ma quando non era stato più autosufficiente era stata costretta a metterlo alla Baggina.
Il giovane dottore le aveva detto che il decorso della malattia poteva durare anni e che lei non era in grado di badare costantemente a suo marito; lì sarebbe stato bene.
Ma dopo sei mesi che era ricoverato nel reparto Alzheimer, chiamato Zonda, lei lo aveva riportato a casa.
Una mattina era arrivata verso le dieci e lo aveva trovato ancora steso nel letto. Si era cagato addosso ma non lo capiva, solo il fastidio fisico lo aveva fatto agitare e si era cosparso di merda tutta la faccia. Maria aveva pianto come una ragazzina di fronte a quell’uomo impotente. Che aveva lavorato tutta la vita, che per quarant’anni l’aveva amata e stretta tra le sue braccia forti, ora ridotte a pelle e ossa. Quell’uomo con cui aveva spartito il letto e il gabinetto, e ora la riconosceva a stento; ed erano i momenti peggiori quando si rendeva conto della sua situazione diceva “Maria, cupem.” Maria uccidimi.
Aveva litigato con gli infermieri e il dottore, dicendo che anche un uomo che non sa più chi è resta un essere umano, che non si può lasciarlo a sguazzare nella sua merda per ore. Disse merda, lei che era una donna che non diceva mai parolacce.
Se lo era riportato a casa al terzo piano di via V.E. Orlando e aveva detto al dottore che ci avrebbe pensato lei a suo marito, aveva la sua pensione e anche quella di lui, che prima andava tutta versata all’ospedale. Il dottore aveva alzato le spalle “Contenta lei.”
A casa Mario era meno agitato che all’ospedale, stava ore e ore tranquillo davanti alla televisione, ma non per questo capiva cosa succedeva. A volte pensava che lei fosse sua madre, i rumori forti e le esplosioni alla tv lo riportavano alla guerra mondiale. “Andiamo al rifugio, scapem!” Diceva.
“Adesso passa.” Lo rassicurava, e d’un tratto negli occhi riappariva la coscienza, tutta la forza e l’amore che aveva provato per lei, “Maria, cupem…” e lei scappava nella camera da letto a piangere calde lacrime che scorrevano sul suo volto rugoso e bruciavano il cuore della ragazza innamorata di diciassette anni.
Quella mattina si era svegliata per l’odore di feci, orribile. Mario aveva il pannolino ma tutto quel semolino faceva un odore. Lui l’aveva seguita docile al bagno e si era seduto sul bidè. Mentre lei lo lavava con amore, un botto per strada, più forte del solito, aveva scosso l’aria.
“ Bombardano… vieni, Pinuccia, andiamo su da me, che Maria è scappata al rifugio”.
Lei era rimasta di marmo. E dalle nebbie del tempo tutto era tornato alla memoria.
Due giovani fidanzati che vivevano nello stesso palazzo. Lui era andato in Albania e in Grecia ed era tornato con una pallottola in una caviglia. Riformato.
Era un lento avvicinarsi, sguardi sulle scale, nelle file per il mangiare, nelle fuggevoli occhiate cariche di desiderio. Poi le passeggiate, la paura dei bombardamenti, fin quando un giorno lui le aveva detto, era il ‘43 – Quando finisce questo barlafus ti sposo. – E l’aveva baciata. Da quel giorno era stata sua.
Poi c’era stato il bombardamento, piovevano spezzoni incendiari e bombe. Come la grandine.
Dieci minuti prima erano insieme che chiacchieravano e si tenevano per mano, poi lui aveva detto che usciva a comprare del latte.
Quando erano venute giù le bombe lei, che aveva un terrore indescrivibile, era corsa al rifugio sicura che lo avrebbe trovato lì. Ma lui non c’era. Aveva vissuto due lunghe ore di angoscia piangendo, convinta che sarebbe morto.
Quando il bombardamento era finito ed erano usciti dal rifugio lui era sul pianerottolo del primo piano con la Pinuccia, la figlia della sarta. Non erano riusciti a raggiungere il rifugio in tempo, avevano detto, così erano scappati fuori al parco e si erano nascosti sotto una panchina.
Lei lo aveva abbracciato e aveva pianto ancora di felicità. Non aveva guardato la Pinuccia, quella servetta di sedici anni dagli occhi di gatta.
Ma adesso vedeva tutto, vedeva lo sguardo pieno di rabbia ma anche irridente di lei, i gesti ampi e rilassati di lui. Li vedeva nel grande letto della madre, nudi, avvinghiati. Sentiva le sue parole come se fosse lì.
“Bella che sei, preferisco morire adesso con te sotto le bombe che vivere tutta la vita.”
“Ma la Maria?”
“Ghe pensum duman.”
Gli occhi di Maria erano gelidi adesso, mentre Mario si agitava sul bidè.
“Maria, cupem.” aveva detto.
“Certo che te cupo”.
Aveva preso l’unico oggetto contundente che aveva sottomano, lo spazzolone del cesso, e aveva cominciato a colpirlo al capo con una violenza inaudita. La violenza della ragazza di diciassette anni ferita e tradita, per dieci lunghi minuti lo aveva colpito senza soluzione di continuità chiamandolo traditore.
Quando aveva smesso lui era rovesciato in una posizione innaturale tra il bidè e la vasca, sangue sgorgava dal cranio. Ma gli occhi, quelli sembravano gli stessi occhi del ragazzo che era uscito la mattina a prendere il latte, verdi come il petrolio. Adesso poteva piangere. Pianse a lungo sola, vecchia, giovane, anche lei stordita come il suo unico amore. Poi si era alzata e aveva fatto il 113.