Fuori dal corso della storia, dal progresso civile, dall’evoluzione sociale. Fuori da ogni agenda politica. Ma dentro ai libri, che li hanno resi protagonisti e ridato dignità. Chiamateli cafoni, villani, chiamateli contadini. Contadini di quel sud – chiamatelo sud, mezzogiorno, meridione – emarginato, abbandonato, dimenticato, isolato, misero, arretrato, immobile, oppresso, abusato, disilluso, disincantato, disagiato, disperato, sfruttato, consapevole, arrabbiato. Parole, queste, che sarebbero dovute pesare come macigni sulla coscienza di qualcuno. Qualcuno che stava nella stanza dei bottoni, qualcuno che giocava con il potere facendo sprofondare sempre di più con il suo disinteresse una parte del Paese.
Scrittori come Ignazio Silone e Carlo Levi, però, le hanno dato voce – a questa parte del Paese – rendendo giustizia a uomini e donne da sempre umiliati e sottomessi. Certo, le pagine di un romanzo non potranno mai riscattare secoli di soprusi ed inganni, ma è vero anche che un’opera d’arte rimane lì, per sempre, a disposizione di chi vorrà capire che un contadino del sud non è solo un ignorante, ma un lavoratore instancabile e soprattutto un uomo onesto. Nonostante tutto.
L’ abnegazione, lo spirito di sacrificio, la lotta continua, tutto questo, è racchiuso magistralmente nella storia di “Fontamara”, luogo immaginario nato dalla penna di Ignazio Silone. Luogo immaginario, sì, ma diretto riferimento a quei paesini della Marsica, che tante tribolazioni han dovuto subire. “ Le ingiustizie più crudeli vi erano così antiche da aver acquistato la stessa naturalezza della pioggia, del vento, della neve.” Il linguaggio di Silone è volutamente scarno, senza orpelli, genuino. Non poteva che essere così, dal momento che il modo di comunicare deve pur sempre adattarsi al soggetto dell’esposizione. Il cafone dello scrittore aquilano è infatti puro, verace e rispecchia a pieno titolo questo modo di raccontare “…chiamando pane il pane e vino il vino…” Il ribelle Berardo Viola, contadino coraggioso, diventerà l’emblema di quella lotta e di quel sacrificio che serviranno a non abbassar la testa.
L’universo tratteggiato da Levi con “Cristo si è fermato a Eboli” risulta orfano dei conflitti sociali e si fa invece simbolo di quell’immobilismo e di quella passività che sono da sempre tratti caratteristici della terra lucana. Ma la Lucania è anche la dimora di persone ospitali, generose, rispettose, di persone che si affidano ciecamente, nonostante tutto, ad un medico venuto dal Nord, poco pratico ma molto preparato. Quel medico è prima di tutto uno scrittore ed un pittore e per giunta mandato al confino. Però si fidano lo stesso, si fidano perché sanno che qualunque alternativa è di sicuro migliore di certa gente, arrivista e incompetente. Sono i signorotti del paese, uomini superficiali e pigri, la cui unica preoccupazione è quella di mantenere inalterato il proprio status sociale. Carlo Levi li mette sul piatto della bilancia assieme ai cafoni, se volete ingenui e limitati, ma che conservano in sé un’umanità e una purezza al di sopra di tutto. E il tribunale letterario non ammette equivoci, la finta giustizia è servita !