Quando si scrive un romanzo, un racconto, una pagina di un diario si finge, irrimediabilmente. “Fiction”, in inglese, è qualsiasi lavoro scritto che comporti un processo d’immaginazione e creazione. La finzione accompagna sempre la mano e la mente di chi scrive. Il foglio di carta permette di poter vivere un’altra realtà, simile a quella vera, esistente, ma con l’aggiunta di frangenti, situazioni, sentimenti che vivono e si animano soltanto quando fissati in parole scritte. Non si tratta di una menzogna, ma di una verità più credibile della realtà.
Lo sa bene Stephen King che, nel suo saggio On Writing (Sulla scrittura), afferma che “la finzione è una bugia, e la buona finzione è in realtà la verità che si cela dentro la menzogna”. Così non smette di scrivere racconti fantastici e i romanzi da cui sono stati tratti film memorabili. Nelle sue opere l’elemento irreale corrisponde più del vero ad un qualcosa di possibile e verosimile. La sua finzione sta nel restituire al lettore una luce prospettica attraverso la quale comporre il proprio universo ideale ed immaginato. Del resto, lui stesso aveva sempre desiderato, fin da piccolo, di essere qualcun altro. Ci riesce attraverso la scrittura (On Writing).
“Una buona fiction”, dice Ralph Ellison “è costruita partendo dalla realtà, e quest’ultima è difficile da trovare” (Advice to Writers). Niente di più vero anche per Tom Wolfe il quale afferma che “la finzione deve essere plausibile, al contrario della verità, della non-fiction”. Come negarlo? Quando raccontiamo un fatto accaduto oppure una situazione in cui ci siamo trovati, li descriviamo senza pensarci, senza decorarli con particolari e dipingerli con sfumature realistiche credibili. Non ne abbiamo bisogno: la realtà passata è lì, provata dagli eventi. Nella fiction, ovvero quando raccontiamo una bugia, ci inventiamo una storia per trovare una scusa e abbiamo necessariamente urgenza di particolari minuziosi che ci aiutino a comporre un puzzle credibile, una situazione attendibile, a prova di smentita.
Così chi scrive ha bisogno di creare una realtà parallela più vera del reale. La sua creazione somiglia alle nostre vite nell’atto di essere messe in scena. Il testo scritto “ci dà l’illusione della parvenza del vero, ci dà la verità velata dalla gentile maschera dell’illusione”. (Tennessee Williams, The Glass Menagerie). Ecco perché è importante leggere. Non solo per trarne godimento e conoscenza, ma soprattutto per comprendere l’irrealtà del vero, o per dirla con John Waters, “per capire lo scellerato comportamento dei tuoi amici, o meglio, la tua stessa pazzia” (Role Models).
Comprendere, poi, non sembrerebbe così importante. Osservare e restare inconsapevoli e meravigliati del mistero proprio e altrui forse è più congeniale a chi cerca nell’inconsistenza del reale solo il dubbio delle risposte. Credere, forse, non comprendere. “Credere nella finzione che sai essere tale e nient’altro. La dolce verità è sapere che sia falsa e crederci volentieri” (Wallace Stevens, Opus Posthumous: Poems, Plays, Prose).
Ingenuamente, allora, bisognerebbe ripensare alla realtà come alla più tenera delle finzioni e alla verità come la più dolce ed indolore menzogna, poiché “la verità è, senza dubbio, meravigliosa, così come lo sono le bugie” (Ralph Waldo Emerson, Journals and Miscellaneous Notebooks).