Angela non poteva certo definirsi una ragazza insoddisfatta. Non svolgeva il lavoro della sua vita ma comunque ne aveva uno. Non aveva la lode in nessuna materia ma il suo libretto vantava numerosi trenta. La sua famiglia non era di quelle prestigiose o affiatate, ma i suoi genitori riuscivano a permettersi qualche agio lavorando con fatica e, nonostante i litigi e le incomprensioni, ancora si amavano.
Nel cuore di Angela c’era spazio solo per un desiderio: andare a vivere a Londra. Il solo nome la rendeva elettrica, e subito pensava al caos di Leicester Square, alla magia di Covent Garden, alla folla di Oxford Street e all’allegria del mercatino coperto di Spitalfield. S’era documentata abbastanza per capire che, in fondo, là, in quella terra piena di promesse e aspettativa, la vita sarebbe stata migliore.
Là potevi essere chi eri senza dover giustificarti o nasconderti. Là potevi perderti in mezzo alla folla senza sentirti sola, perché in quella città c’era rimedio a tutto: pareva anche alla solitudine (come? Un caffè a tarda notte, una pizza verso mezzanotte, un giretto qualunque in un negozio ancora aperto… Non come lì, dove abitava lei: alle undici e mezza di sera era tutto chiuso e in giro non si vedeva anima viva). E poi lì avrebbe vissuto la città, l’avrebbe respirata. Non odiata, come faceva lei con Verona.
Lavorava in quel bar-pasticceria solo il sabato e la domenica. La pagavano una miseria, la trattavano male perché lei era senza un padre e con una madre sbandata. Non aveva una macchina, quindi era costretta a tornarsene a casa in autobus: non un collega che le desse un passaggio, non qualche euro in più allungati dal capo per permetterle di prendersi un taxi.
Tornava sempre a casa stanca e ferita. Fortuna che c’erano le guide turistiche di Londra – le aveva comprate tutte, non importava che dicessero le stesse cose. Si stendeva sul letto, sospirava e guardava quei volumi che aveva aperto e riaperto per guardare le fotografie, per studiare a memoria i quartieri londinesi e che cosa distinguesse ciascuno dagli altri. Sognava le mattinate spese ad osservare ogni singolo gioiello contenuto nel British Museum, i pranzi con le amiche nel costosissimo ristorante della Tate Modern, le fotografie artistiche scattate davanti alla cattedrale di St. Pall, i caffè da Starbucks.
Pensava a tutte queste cose e stava meglio. Se poi osservava anche il suo salvadanaio, quello che conteneva i soldi ed i risparmi per il suo trasferimento a Londra, sentiva che i sogni non erano qualcosa di astratto. Che i sogni a volte li puoi anche toccare con mano.