Ci sono città che si cuciono addosso la loro storia come un vestito, che a volte calza a pennello, altre sta un po’ stretto. Una di queste è Torino, città squadrata ed inquadrata, dove la nascita in un quartiere decide quello che sarai nella vita perché se sei nato in uno dei palazzoni della Falchera, estrema periferia nord, difficilmente andrai a vivere in un attico a Piazza Castello. A meno che tu non abbia un sosia.
Ne sa qualcosa Guido Marchisio, quarantasei anni, medio-alta borghesia torinese, n.2 cioè direttore di stabilimento della Moosbrugger, settore – manco a dirlo – automobilistico, figlio di un ex dirigente Fiat negli anni della sconfitta dei sindacati, gli anni Settanta. Perché se Torino sa di fabbrica e ancor più di automobili, sa anche di lotte sindacali, di cassa integrazione e licenziamenti, di suicidi ed occupazioni, sa di piombo e Brigate Rosse, in una parola, di Storia. E la Storia, si sa, corre e ricorre e così il noto ristorante, nei cui specchi si riflette il profilo curvo di Palazzo Carignano, che ha visto Cavour e altri complottare per fare l’Italia, diventa il luogo in cui si-fa-la-ristrutturazione-o-si-muore, che renderà la sede torinese della multinazionale “produttiva come un’azienda cinese precisa come la casamadre tedesca”.
È il passaggio all’età adulta, l’investitura per sentirsi arrivato che Guido attende, consegnata dal padre spirituale e maestro Jean-Marc Morani, tagliatore di teste e istigatore di suicidi, che agisce come “creatura dell’ombra” ed educa a fare altrettanto il figliastro. Perché Guido, che ha “passato la giovinezza cercando di stupire il padre” Vittorio, interessato solo alla filatelia e alla nomina a presidente del club della caccia, arrivato alla maturità, ci ha rinunciato e di padre se n’è trovato un altro. E in tutto questo la ricerca del misterioso Ernesto Bolle, che come lui ha l’eterocromia e un neo sotto l’occhio destro (forse è Il sosia di Dosteoevskij, il Compagno segreto di Conrad o se stesso in un altro momento della vita, come ne El otro di Borges, suggerisce Perissinotto) non è solo un diversivo.
Il 26 ottobre 2011 (o il 24 marzo 1975?) come il 9 settembre 1979 (o il 10 settembre del 1980): un incidente cambia la vita di Guido così come i licenziamenti Fiat cambiarono la storia di Torino. Guido non sarà più lo stesso, così come “Torino non fu più la stessa” .
Nel braccio di ferro tra sindacati “vecchi-dinosauri-comunisti fuori tempo massimo” e dirigenti-squali, tra auto incendiate, minacce e attentati “di vernice”, lavoratori ridotti a postulanti in processione dietro la porta del suo ufficio, Guido vacilla e stringere il calcio della Beretta diventa “come, per un bambino, dare la mano ad un padre affettuoso e onnipotente”. Chi? Un comunista velleitario? Michele Aymar?
Una concatenazione di eventi sconvolgenti, i ricordi di un bambino che si rivelano “racconti di ricordi” altrui, la ricerca della verità e dell’identità attraverso indirizzi, date, nomi, numeri in una Torino ora madre operosa e proletaria, ora matrigna padrona e decadente, sempre metafora di epoche di forti contrasti e di nette divisioni, ora come allora.
Il mondo del lavoro di ieri e di oggi, feriti ed indagati nel profondo, la vita del protagonista Guido (o Ernesto?) in cui si aprono profonde spaccature, flash-bulbs da cui riaffiorano storie e colpe perché “Tra padri e figli, a volte, ci sono rancori sonnolenti, pigri, eppure mai disposti alla resa totale”.
La scoperta dell’identità di un uomo può passare attraverso un colpo di pistola?
I nostri padri hanno più colpe degli altri, perché credevano di cambiare il mondo con la politica e ignoravano le persone, anche quelle più vicine. Se non hai la “persona” al centro della tua azione hai perso in partenza.