Difficile togliersi dalla mente la lucida follia nello sguardo del dottor Hannibal Lecter uscito dalla penna di Thomas Harris ed interpretato magistralmente sullo schermo da Anthony Hopkins. Non è sfuggita a nessuno la passione dello psichiatra-cannibale per i classici e l’arte, la sua abilità nel disegno e il suo amore per Firenze. Ed è evidente il ruolo che il visionario ed inquietante acquerello Il grande drago rosso e la donna vestita di sole (1806-1809 c.a.) di William Blake assume nella vicenda del folle omicida di Red Dragon (2002) che, a seguito dei maltrattamenti subiti nell’infanzia, sviluppa la sua psicosi alla luce della presunta reincarnazione nel drago stesso, divinità oscura dalla quale, in extremis, tenta di liberarsi, facendo a pezzi il dipinto.
Ne L’apprendista fiammingo (2006) di Jörg Kastner, invece, è un pittore che, nel cuore del Seicento, incrociando il suo destino con quello di Rembrandt, indaga sulla scia di omicidi, generati da raptus improvvisi, che si lascia dietro una misteriosa tela, dipinta col colore blu, bandito dagli artisti in quanto colore del diavolo.
L’elemento diabolico, al di là dell’invenzione letteraria, è realmente presente nella pittura fiamminga. Nel Cinquecento, mentre in Italia trionfano la razionalità del pensiero, la luce e il colore dell’arte umanista-rinascimentale, Hieronymus Bosch e Pieter Buegel sono testimoni di un medioevo non ancora tramontato. Un universo caotico, denso di paure e angosce che riecheggiano dal profondo, in cui l’incubo assume i connotati della deformità: figure umane ridotte allo stato larvale, orribilmente gesticolanti ed urlanti. Immagini che risentono evidentemente degli scenari costruiti da Dante Alighieri nell’ Inferno.
Questi elementi si ritrovano quasi tre secoli dopo in Spagna nella pittura di Francisco Goya che, forse a seguito dell’improvvisa sordità, comincia ad ascoltare le “voci di dentro” e nei i c.d. Capricci (1796-1798) si fa portavoce delle catastrofi che l’irrompere del demoniaco provoca nel mondo. “El sueño de la razón produce monstruos”: dove la doppia accezione di sonno e sogno indica l’aspirazione alla razionalità che crolla di fronte al richiamo della violenza. La ragione, prima dormiente, non trionfa ma diviene sogno-incubo, foriero di nefandezze e distruzione. Goya esaspera il senso del tragico nelle pitture di cui ricopre la pareti della casa detta Quinta del sordo, in cui l’angoscia abbraccia il macabro in una potenza espressiva ineguagliabile.
In Francia è Théodore Géricault a riprendere il tema della tragicità della condizione umana nella serie di ritratti commissionati dallo psichiatra del Salpetrière Etienne Georget, a dimostrazione del nesso tra psicopatologia e tratti somatici. Noti come Alienati (1822-1823), sono una galleria delle manie umane in cui il dramma del malato mentale, celato dietro l’apparente apatia, suscita inquietudine e compassione allo stesso tempo. Saranno forse questi volti ad influenzare i personaggi alcolizzati e maniaci de L’ammazzatoio (1877) di Émile Zola.
Il rapporto arte-medicina si manifesta palesemente nel 1894 quando Gustav Klimt viene incaricato dei dipinti delle facoltà dell’Università di Vienna, nello stesso periodo in cui Sigmund Freud porta avanti i suoi studi. La Medicina scandalizza nella rappresentazione di Igea tutt’uno col serpente, unità di vita e morte, essere e trapassare, dall’infanzia embrionale alla degenerazione della vecchiaia, fino allo scheletro mostrato come parte integrante di un percorso esistenziale.
Qualche anno più tardi Paul Klee scrive in un diario le parole che saranno poi il suo epitaffio: “Non appartengo solo a questa vita. Poiché io vivo bene coi morti come coi non nati. Più vicino di altri al cuore della creazione ma sempre troppo lontano.”
Nel 1912, pur non partecipando alla prima mostra del movimento Blue Reiter, in una recensione su Die Alpen scrive: “Esistono anche i primordi dell’arte, come quelli che troviamo al museo etnografico o a casa nelle camere dei bambini (…) Più ingenui sono questi bambini, tanto più istruttiva sarà l’arte da loro offerta (…). I segni dei malati di mente costituiscono fenomeni simili, per cui neanche la parola pazzia è un insulto adeguato.” È l’affermazione dell’importanza dell’arte primitiva, infantile e dei malati mentali.
Sono le basi per il saggio Opere artistiche di malati di mente (1922) e la straordinaria collezione che lo psichiatra Hans Prinzhorn mette insieme in quegli anni in Germania, primo tentativo di analisi della sottile linea di confine tra malattia mentale ed espressione di sé che influenza profondamente l’arte degli anni Venti.
Nel 1945 il pittore francese Jean Dubuffet conia il termine Art Brut (letteralmente “arte grezza)” e dà vita ad un’importante collezione che segna l’affrancamento dell’ “arte degenerata” (come era stata definita pure l’arte di Klee per l’estrema anomalia delle forme) detta anche “arte patologica” o Art des faus, ad espressione della creatività che emerge del profondo dell’animo umano, nel suo valore comunicativo e artistico prima che terapeutico.
Il mondo di Adolf Wölfli, la cui consapevolezza d’artista si forma durante i ricoveri per schizofrenia, dipingendo persino sulle pareti e sulle porte dell’ospedale, aveva già attirato l’attenzione di Sigmund Freud e di André Breton, prima medico e poi pittore surrealista, negli studi sul rapporto tra malattia mentale ed espressione artistica. “Quei lavori creati dalla solitudine e da impulsi creativi puri ed autentici” escono finalmente dagli ospedali psichiatrici ed entrano di diritto nei musei.
“Bordeline. Artisti tra normalità e follia: Da Bosch a Dalì, dall’Art Brut a Basquiat.” presso il MAR – Museo dell’Arte della Città di Ravenna (fino al 16 giugno) nasce dal percorso di Giorgio Bedoni psichiatra e coautore con Bianca Tosatti di Arte e psichiatria. Uno sguardo sottile (2000) dove il dialogo tra i due campi di conoscenza attraversa tutto il Novecento, tra frequentazioni e correlazioni necessarie.
L’arte a servizio della psichiatria o la psichiatria a servizio dell’arte?
Nel 1922 Karl Jaspers dedica un saggio, Strindberg und van Gogh, a August Strindberg, drammaturgo e scrittore ma anche pittore e scultore (destinatario di uno dei Biglietti della follia, lettere che Nietzche invia a varie personalità all’apice della sua compromissione mentale) e a Vincent van Gogh, per il quale, nonostante il contenuto delle lettere al fratello Theo ( “Sono nuovamente ridotto quasi alla follia (…) Se non fosse che ho una doppia natura di monaco e di pittore, lo sarei già da molto tempo e in modo completo” Lettera 556) e il famoso Autoritratto con orecchio bendato (1889) oggi è possibile affermare, sebbene con opinioni diverse o più sfumate, che l’arte sussisteva al di là della schizofrenia o, come riteneva lo stesso Jaspers, della sua ipersensibilità.
L’elenco del connubio arte-follia annovera nomi illustri toccando tutte le sfumature che vanno dall’istrionismo di Salvador Dalì alla psicosi maniaco-depressiva di Antonio Ligabue, che originava da eventi fortemente drammatici e da un’esistenza vissuta sempre nel rifiuto e nella marginalità.
Come scrive Paul Klee in uno dei suoi diari: “L’arte non riproduce ciò che è visibile, ma rende visibile”. Non è un caso che questi borderline spesso e volentieri abbiano scelto l’autoritratto quale espressione visiva del disagio interiore e della consapevolezza di sé, come non è un caso che negli stessi anni in cui arte e psichiatria s’influenzavano reciprocamente l’Ulysses (1922) di James Joyce si addentrava nelle profondità dell’animo umano e le atmosfere manicomiali influenzano oggi la scrittura del Patrick Mc Grath di Follia (1996) figlio, guarda caso, di uno psichiatra.