Il mondo che tutti vorrebbero e quello che nessuno vorrebbe mai. E in mezzo ad essi la realtà, spartiacque tra il paradiso e la catastrofe, tra l’El Dorado e l’Ade.
Poli contrari, questi, che portano con sé l’impronta di due parole, due parole che meglio delle altre giungono a rappresentare l’antitesi degli scenari immaginabili. Se da un lato il termine utopia salta fuori dal nome che Tommaso Moro diede al suo Stato ideale, la parola distopia viene soprattutto accostata al genere romanzesco che con autori come Orwell, Huxley e Bradbury seppe dare forma e sostanza ai fantasmi che ogni individuo vorrebbe scongiurare ma che tuttavia continuano ad aleggiare nel suo inconscio. 1984, Il mondo nuovo e Fahrenheit 451, nonostante abbiano in comune le immagini apocalittiche di universi inquietanti e intenti pressoché identici, sono però tre romanzi molto diversi. L’opera di Orwell, composta nel 1948, per forza di cose è imbevuta degli orrori e delle follie che la guerra aveva portato. 1984 è l’apoteosi del grigiore, della rassegnazione, di un gelo che penetra senza complimenti escludendo ogni possibile squarcio di vita. La stanza 101 è la metafora delle paure più nascoste, quelle capaci di demolire la nostra forza morale e di renderci succubi di un potere che non ammette eroi. No, non li ammette, il potere descritto da Orwell piegherà Winston Smith, il ribelle, al punto che egli finirà per amare il Grande Fratello, ovvero il simbolo della menzogna e dell’oppressione.
Ben più controversa ed equivoca è invece la società descritta ne Il mondo nuovo datato 1932. Il confine tra utopia e distopia diviene qui molto labile e non è un azzardo trovare alcune analogie con il nostro tempo. L’ambiguità trova spazio in Huxley attraverso la caratterizzazione di una civiltà in cui non ci sono guerre, non ci sono malattie, c’è la droga di turno a placare le ansie e i timori, ma c’è anche una felicità solo apparente, l’annientamento di ogni individualità e il totale condizionamento delle scelte.
Che tristezza! Ma niente paura! A mitigare un poco questo clima sconsolato e funesto appare il finale di Fahrenheit 451, pubblicato nel 1953. L’intuizione degli uomini che imparano a memoria i libri diventando così gli ultimi custodi di un sapere che è stato messo al bando e che avanzano uniti in aiuto verso la città distrutta è l’immagine stessa della speranza in un futuro migliore.
Condizione che potrebbe realizzarsi forse coltivando il nostro diritto ad essere diversi, unici, a pensare con la nostra testa, ad elevarci attraverso l’arte e la cultura. Tutte cose che, leggendo tra le righe, il romanzo distopico ci ha sicuramente insegnato.