Poiché l’alfabetizzazione sembra essere, agli occhi di molti -troppi- l’unico requisito per diventare scrittori quello che sto per dire vi sorprenderà: fare lo scrittore non è facile. Uno scrittore come si deve lavora come un matto alla sua opera, studia storia, trama, personaggi, e non solo il romanziere compie uno sforzo tale da esserne invaso fino alle viscere, ma anche il saggista, e lo storico e via dicendo. L’uso di archetipi comuni è scontato (in fondo greci e latini avevano già detto tutto tempo fa), idem per informazioni, date e spesso anche i punti di vista. Ma quando dall’ispirazione si passa al plagio?
“Ridire le cose già dette e far credere alla gente di sentirle per la prima volta, in ciò consiste l’arte di scrivere”, così scrive Rémy de Gourmont.
Si potrebbe concludere facilmente che nulla è originale e chiudere la questione affermando che tutti gli scrittori sono costretti al plagio, poiché in letteratura tutto è stato già scritto prima. Eppure un confine netto tra imitazione, frutto di introiezione e/o ammirazione del lavoro altrui, e bieca copia deve pure esistere, come pure devono esistere delle sfumature tra i due concetti.
È di pochi giorni fa la notizia che il gran rabbino di Francia, Gilles Bernheim, sia stato costretto a dimettersi a causa della scoperta di un plagio: avrebbe infatti copiato di sana pianta, nel suo “Quaranta meditazioni ebraiche”, stralci piuttosto rilevanti di lavori di altri autori. Lo scandalo che lo ha travolto ha portato alla luce anche il fatto che nel suo curriculum figurava un dottorato inesistente, ma questa è un’altra storia a noi piuttosto nota. Colpa della corruzione dei nostri tempi? Direi di no, visto che il primo caso di plagio documentato nella storia riguarda il poeta Marziale, primo non solo a denunciare la presunta lettura in pubblico di versi suoi, falsamente attribuiti a sé dal lettore, ma anche il primo ad aver usato il termine plagium nel suo significato odierno.
Quest’oggi, nei confronti del rabbino intollerante, è facile disapprovare e scuotere il capo, fare la morale e affermare “io no”, e se invece vi dicessi che tra i famosi plagiari della storia possiamo annoverare Shakespeare? Certo tra il misterioso e grande autore e i suoi pari vigeva la convinzione che copiare e migliorare l’opera altrui fosse la massima forma d’ammirazione, solo chi la peggiorava commetteva plagio. E non finisce qui, Nabokov e il suo controverso Lolita, giudicato spazzatura alla sua uscita, non era tutta farina del sacchetto del russo. Pare infatti fosse il frutto del plagio di un racconto di Heinz von Eschwege. Pare accettabile che l’autore di un libro che tratta temi come l’ossessione e la pedofilia possa aver commesso un furto, ma adesso sedetevi, sto per darvi un grosso colpo.
Anche Martin Luther King Jr. era un saccheggiatore: pare infatti abbia copiato la sua tesi conclusiva di un dottorato in filosofia.
Pagine alte, a volte altissime, della letteratura riproposte, o ricopiate scegliete voi, tanto eccelse da meritare dei premi: accade anche questo. Joséph Macé-Scaron, ad esempio, si è meritato il “Prix de la Coupole” per il suo “Ticket d’ entrée”, peccato che il suo libro prenda pari pari alcuni brani del romanzo “American rigolos” di Bill Bryson, ma attenti a pensare che queste cose accadano solo lontano da casa nostra, la scrittrice Melania Mazzucco infatti nel suo “Vita”, vincitore del premio Strega 2003, ha ricopiato intere pagine di “Guerra e pace”. Svista? Chissà perché viene difficile pensare che qualcuno possa ricordare a memoria interi brani di un libro ma poi dimenticare che la paternità di quei brani sia d’un altro. Certo talvolta un banalissimo riferimento alla fonte salverebbe dall’accusa di essere dei ladri di parole.
E allora perché? Si ha forse il timore di ammettere di aver attinto all’ingegno di maestri credendo che questo sminuisca il proprio? O forse si ha la convinzione che il povero lettore inconsapevole (un po’ scemo forse) mai potrà accorgersi del rapimento (uno dei significati di “plagio”)?. E se persino un intellettuale degnissimo di stima come Corrado Augias, nel suo “Disputa su Dio e dintorni” ha ceduto al vizietto del copia-incolla trovare delle ragioni diventa assai arduo. Esiste poi un’altra faccia della medaglia non trascurabile, sono molti infatti gli autori accusati di plagio e poi dimostratisi assolutamente innocenti, vedi i casi della Rowling e di Dan Brown, indubbio il valore monetario di una causa che vede coinvolti due tra gli autori più ricchi degli ultimi anni, forse meno spiegabile il desiderio di vedersi riconoscere quali veri autori di libri insulsi come “Il codice Da Vinci”. Dove cede la dignità evidentemente può il portafoglio.
Fatto sta che il confine tra i vari concetti diventa talvolta tanto labile da farci sentire soli di fronte a casi che a noi appaiono lapalissiani, come accaduto a me e ad una collega all’uscita di un romanzo, “Niente” di Janne Teller, in cui un bambino decide, in segno di protesta, di salire su di un albero per non discendervi più. In questo caso, in cui l’assonanza con Il barone rampante è palese, a cosa ci troviamo davanti? Semplice coincidenza forse, considerando anche che gli sviluppi narrativi non coincidono oltre questo, pur fondamentale, punto.
L’era digitale ha finito per complicare le cose da un lato, i plagi grandi e piccoli in rete sono infiniti, ma dall’altro, inaspettatamente, ha reso la vita dei plagiari forse ancora più dura: il caso del rabbino francese infatti è venuto alla luce grazie a un blogger.
Che si tratti di copia, imitazione o solo spunto non sarebbe forse eticamente più corretto, e forse anche più cautelante viste le figuracce che ne derivano, citare gli autori da cui si attinge tra le proprie fonti? In fondo “siamo tutti nani sulle spalle di giganti”, e questa massima, senza dubbio, è mia.