Posso anche, caro mio, chiudere in versi
spiegando che si illude, per sedurre
(e molto ci si illude) con diversi
accorgimenti: vedi che ridurre
a tutto si può un niente (con perversi,
come noi, poliformi) onde condurre
il tutto a un niente (e qui, bene conversi
e convertìti, è possibile addurre
esempi, i favorevoli, gli avversi,
senza fine, onde, quindi, indurre e abdurre
abducendo, inducendo, i presi, i persi
che noi saremo: e aiuto, occurre, accurre!)
lunga è la storia, e me, qui, mi congedo:
io ho detto e molto e poco, forse, credo:
(Genova, 30 agosto 2009)
Edoardo Sanguineti
Ritratto non tanto di un poeta vate, idealizzato, onnisciente e celebrativo come spesso si descrive, quanto piuttosto il disegno di un messaggero ingannevole e inaffidabile, che vive egli stesso nel dubbio di quello che scrive.
Con questi versi Edoardo Sanguineti rende quotidiano, tangibile e terreno il compito dello scrittore, il quale ci viene presentato, non tanto come un artista sui generis, ma come un comune uomo dei nostri tempi, che si trova di fronte ad un foglio di carta impugnando una comune penna. Sanguineti gioca con la parola tentando di ricreare l’illusione e lo spaesamento nella mente del lettore, il quale, nel leggere certi versi, va avanti alla ricerca di un significato che forse il poeta ha voluto nascondere più in superficie di quello che possa sembrare; un gioco quindi di luci, ombre, suoni, punti e virgole di un poeta che si diletta ridendo quasi dei suoi lettori spaesati, ma comunque sedotti.
Un poeta decoratore quindi, più che un messaggero. Un seduttore dedito a rendere piacevole più il suo stile e il suo tratto che la tematica affrontata, che quindi vende la sua esperienza e “i suoi guai migliori” (citando la Merini) e li rende belli e affascinanti per ingannare il lettore, costretto a vivere una vita talvolta senza fascino, ma con l’amore per la poesia che legge.
Il sonetto è tratto da” Capriccio oplepiano.” (Biblioteca oplepiana, Napoli 2010), ed è presentato quasi come un congedo del poeta stesso, il quale include la sua stessa persona e la sua stessa professione in questo caleidoscopio di colori, suoni, immagini ed odori rievocati dal suo voler creare qualcosa di sfuggente e accattivante, quasi con il rischio di costringere ogni lettore a leggere il mondo con la lente che i suoi versi poetici gli consegnano nelle mani. Il lettore, indirettamente, viene quindi presentato in questa poesia quasi come uno strumento nelle mani dello scrittore che può essere condotto ovunque si voglia, con la sola finalità di raggiungere e di condividere quell’estasi o tormento mentale che evapora dal foglio di carta, toccato ripetutamente da lettori resi famelici per volere dell’artista.
Questo è comunque un congedo quasi rituale di un poeta che si riconosce figlio del suo tempo e quindi abitante di un’attualità lontana dalla sacralità poetica, propria forse di epoche precedenti, e che egli stesso comprende e tenta, costantemente, di rendere visibile, consapevole del forse progressivo disinteresse per la poesia, ormai resa una forma d’arte poco prolifica.