“L’essenza, il mistero, la seduzione non solo di quella donna, ma della donna, emergono da dentro. Si manifestano appena negli occhi e nei minuscoli pori della pelle, a rivelare un che di ineffabile. (…) Il potere della femminilità? La divinità della donna?”
(Karen Essex, I cigni di Leonardo)
Il ritratto: congegno per la costruzione della bellezza ideale, ieratica, ultraterrena, prima; strumento per la ricostruzione della bellezza carnale, poi; cesellatura del vero e, ancora, sottile indagine psicologica.
Nella sua capacità di creare un dialogo costante tra immagine e narrazione, il ritratto trova nel Rinascimento le sue espressioni più alte e chi meglio di Leonardo da Vinci, incarnazione stessa delle infinite possibilità del genio umano, poteva essere artefice e strumento di tale dialogo?
Fu a tal punto l’uno e l’altro che attraverso i suoi ritratti è possibile ricostruire spaccati del vissuto delle corti presso cui fu a servizio, come quella degli Sforza, o con le quali entrò in contatto, come quella degli Estensi. I ritratti del periodo milanese, in particolare, sono diventati il mezzo attraverso il quale Karen Essex, ne I cigni di Leonardo (2006) si sofferma sulla figura del maestro, che apparentemente fa da sfondo alla narrazione ma che, in realtà, è il trait d’union tra le intricate vicende di queste corti, tra fedele ricostruzione storica e verosimiglianza romanzata.
Il tutto è tenuto insieme dall’urgenza della protagonista, la bellissima ed aggraziata Isabella d’Este, marchesa di Mantova, di non limitarsi ad essere ricordata come raffinata cultrice del bello, colta ed autentica umanista ma di consegnarsi alla storia con un ritratto del maestro che risolva, una volta per tutte e a suo vantaggio, la competizione con la più fortunata ma meno dotata sorella Beatrice, andata in sposa al potente Ludovico Sforza, detto “il Moro”, per il quale Leonardo dipinse diversi ritratti delle sue amanti: da Cecilia Gallerani, nobile e colta amante di Ludovico, in la Dama con l’ermellino (1488), simbolo del Moro, riferimento al suo cognome dal greco galè (ermellino) e, forse, allusione al legame tra i due amanti (la donna che tiene in giogo il potente Sforza), a quello de La belle ferroniére (1490-1495), forse la Gallerani più in là con gli anni o, secondo l’ipotesi accolta anche dalla Essex, Lucrezia Crivelli, un’altra amante di meno nobili origini.
Ma l’immortalità, lo comprende bene Isabella, non consiste nell’essere stata una delle amanti di un uomo potente ma nell’essere ritratta dal maestro dei maestri.
Di quel progetto oggi resta solo il disegno preparatorio, in carboncino e sanguigna, cioè il Ritratto d’Isabella d’Este (1500 c.a) custodito al Louvre, in cui appare ritratta a mezzo busto, col volto di profilo, sereno e autoritario, i capelli sciolti, con la postura e il gesto delle mani quasi a tenere racchiuso un mistero da non rivelare, che rimanda al più celebre ritratto di tutti, quello che Leonardo si portò dietro fino alla morte, la Gioconda (1503-1514 c.a), di cui forse ne costituisce una prefigurazione, uno studio.
Il più analizzato tra i ritratti di donna, ha prodotto tutta una serie di saggi e romanzi (tra cui L’enigma della Gioconda (2007) di Jeanne Kalogridis, Il segreto della Gioconda (2006) di Dolores Garcìa) ed è stato recentemente al centro dell’ennesimo dibattito a causa della c.d. Monna Lisa di Isleworth, la “seconda” Gioconda, ritrovata da un collezionista circa un secolo fa in una casa del Somerset e custodita per quarant’anni in una banca svizzera. Dopo attente analisi scientifiche, è stata attribuita a Leonardo (e non più ad un copista del Sedicesimo secolo) ed è databile tra il 1503-1505. Rappresenta la stessa donna del dipinto del Louvre ma di dieci anni più giovane.
Chissà come avrebbe reagito l’impaziente marchesa sapendo che il maestro aveva concluso l’ennesimo ritratto prima del suo! Perchè se quella di essere uno spunto per “il ritratto dei ritratti”, fu l’unica consolazione, sottile spiraglio aperto sull’immortalità che ebbe Isabella d’Este, di certo non lo seppe mai con certezza. L’abitudine del Maestro, in fondo, era quella di non finire mai, se non in rari casi, le sue opere, allo scopo di una ricerca continua della verità per raggiungere il sentimento puro, l’evocazione dell’anima, nel tentativo di esprimere il divino mediante la forma carnale del vero.
Ma se i ritratti rinascimentali in generale e quelli leonardeschi in particolare, nella loro capacità di trasporre il mondo di rivalità e seduzione tra “donne di potere”, nelle più ricche corti italiane, sono strumenti di analisi e narrazione delle profondità dell’animo umano, che dal mondo terreno si proiettano verso l’immortalità, i ritratti di Jan Vermeer, vissuto nel cuore del Seicento (celebrato recentemente a Roma presso le Scuderie del Quirinale in “Vermeer. Il secolo d’oro dell’arte olandese” e protagonista il prossimo ottobre dell’evento multimediale “Vermeer e la musica: l’arte dell’amore e del piacere” della National Gallery di Londra) sono espressione di una società borghese, basata sul commercio e su valori comuni come la famiglia, in cui l’immagine della donna che legge poesie e suona la spinetta, è il riflesso di un universo intimo, un mezzo per rappresentare i sentimenti di chi guarda, trasposizione evocativa più che volontà verista. Atmosfera, questa, ben riportata dalla scrittura di Tracy Chevalier che in La ragazza con l’orecchino di perla (1999) fa di Ragazza col turbante (1665-1666 c.a), il fulcro stesso della narrazione.
Un ritratto tra i più raffinati della storia dell’arte, in cui quell’osservazione rigorosa della luce, quel perfezionismo ricercato da Vermeer nel rappresentare anche il pulviscolo atmosferico si combinano con la volontà di cogliere, nel gesto della ragazza che si volta, la traccia immediata dei sentimenti.
La Chevalier costruisce una narrazione credibile sia utilizzando funzionalmente un ritratto tra i più celebri e misteriosi di Jan Vermeer, sia facendo leva sulle poche notizie a disposizione sulla breve vita di questo maestro straordinario, che dipingeva poco e con estrema lentezza, utilizzando la propria casa per ricostruire gli ambienti domestici dei suoi interni e gli abiti della moglie per vestire le sue modelle.
Due secoli, due pittori. Due ritratti, due donne: la vita di corte da un lato, l’interno domestico dall’altro, accumunati dall’uso della pittura nella sua funzionalità narrativa.
“Ritratti di signore” che interloquiscono abilmente con lo spettatore e ne fanno un lettore attento delle narrazioni che contengono, tra storia ed invenzione, tra smania di celebrità e delicata inconsapevolezza, ugualmente consegnate all’immortalità, perchè come annotò Leonardo in uno dei suoi taccuini: “Nella vita, la bellezza svanisce. Nell’arte no.”