Così una notte mi presentai in hotel, con le mie quattro valigie da battaglia comprate dai cinesi e la giacca di velluto con le toppe beige e i 32 denti il più possibile in vista per fare bella figura. Il fatto era che dall’altra parte dell’accettazione c’ero sempre io, colui che vi parla, con la mia consueta uniforme verde che mi fa sempre sembrare un croupier decaduto. Non è normale trovarsi faccia a faccia con se stessi, soprattutto a quell’ora della notte. Due Daniele, luminescenti e sfaccettati sotto le luci artificiali: uno gestore di una trentina di camere libere, uno ospite con tutti i suoi averi pigiati dentro una batteria di trolley. Uguali come una fotografia allo specchio, perché la stessa persona. Ebbene, per qualche curioso cortocircuito cerebrale, non avevo paura della mia faccia. In fondo, perché averne?
– Buonasera – mi dissi, chiedendomi per quale ragione mi stessi dando del Lei. – Posso aiutarla?
– Sì, in effetti. – risposi – Volevo prenotare, o avvisare quantomeno… ma sa, non ero sicuro di venire fino all’ultimo e rischiavo di allarmarla per nulla. Comunque, beh, ovviamente ho bisogno di una camera. Ma per sempre.
– Come per sempre?
– Eh.
– Ma vieni a vivere qui? Davvero? – Una simile dichiarazione richiedeva uno slittamento di registro, per la prima volta dopo trent’anni di servizio mi presi la libertà del Tu.
– Già. Immagino che contrattare ora una pigione mensile sia fuori discussione, ma non c’è problema: intanto mi accontento di una buona camera, poi domattina, cioè, anche le dieci-dieci-e-mezza, ora che mi alzo, parliamo con calma. Che dici?
– Che dico, che devo dire… non mi è mai accaduto prima qualcuno che venga a VIVERE all’hotel. Devo fare due conti, sottoporre la cosa al direttore…
– Lo so, lo so bene. Qui non è mai successo nulla. E a giudicare dall’aspetto, non è nemmeno cambiato niente da quando l’hotel è stato tirato su. I tedeschi che arrivavano a frotte, la fiera a ottobre, le gare di motocross, il festival del cinema… e quando si sarebbe potuto chiudere, per rinfrescare? Un suicidio commerciale. Non devi dirmi nulla guarda. Però sai, a lavorarci è un bel posto. Sicuro. Tranquillo. Anche elegante, in fondo. Quindi ho pensato: visto che ho vinto, ci vengo pure a vivere!
– Vinto? E cosa avrei… scusa, cosa avresti vinto? – cominciavo a dubitare delle mie sinapsi; eppure in cinquantasette anni non mi avevano mai tradito. Quindi dall’altra parte del banco c’ero io, che non ero io, ma sapevo chi ero e conoscevo la mia vita. Chissà se mi leggevo anche nel pensiero: mi fissai forte forte aspettando una risposta tipo “sì, i tuoi pensieri sono i miei”. E invece uscì tutt’altro. Ma con lo stesso tono sicuro che mi aspettavo: il contrario del suo, leggero e vagamente trasparente.
– Quei biglietti che li gratti e ti danno 5.000 euro al mese, hai presente, no? Li compri ogni giorno, dai. Ecco, due settimane fa ho vinto: 200.000 euro subito, 5.000 al mese per vent’anni e poi altri 200.000 come saldo finale. Non male, eh? Ormai sono rimasto solo, lo sai che Luisa se n’è andata tre anni fa, e a quell’appartamento non è che fossi troppo affezionato. Anzi. Poi con quell’idiota di fronte sul pianerottolo, quelli del piano di sotto che friggevano anche i sassi, le foto dei nostri viaggi alle pareti, le sedie, il tavolo, il divano, i fornelli che… oddio, i fornelli. Non li ho mai usati, ora non riesco nemmeno a guardarli. Insomma, ho fatto due conti, ho messo un annuncio e ci ho tirato su un bel centocinquantamila, che è una bazzecola, ma alla fine sai che me ne frega, col biglietto da una vita in tasca. E quindi mi sono detto: dov’è che potrò vivere davvero servito e riverito? Che diamine, in hotel, no? E quindi, eccomi qui. Non sarà un problema, credo. No?
– No, certo, cioè; no, credo. Oddio, penso che gli ospiti potrebbero averne. Non penso che vedere due volte la stessa persona a distanza di pochi attimi, prima in divisa da concierge nella hall e poi in costume ad abbronzarsi sul solarium, sia un’esperienza rilassante… Però se sta bene al direttore per me si può fare. Ti confesso che non so bene di cosa potremmo parlare. Nel senso che, beh, sei qui, starai qui, sei me, ma abbiamo due vite diverse; opposte direi. Oddio, a essere proprio sinceri, più apri bocca e più mi chiedo perché tutto quello che stai vivendo non sia successo a me. Perché tu, se sei me? Come fai a non chiedertelo?
– Perché non ne ho bisogno, mio caro: io lo so, cosa sei. Tu sei la rispondenza perfetta alla regola. Sei il pezzettino di tangram che manca alla società per essere compatta e immobile. Io no. Io vengo da un altro puzzle, mio caro. Sono un pezzetto di un puzzle che è ancora chiuso in scatola, a differenza tua.
Una mano scavalcò il bancone, battendo sulla spalla così identica a quella a cui era attaccata.
– Un giorno, forse, capirai. E quando avrai compreso, quando finalmente prenderai la tua scelta definitiva, forse anche tu vincerai. Senti, starei ore a parlarti. Ti guardo e ti apprezzo, davvero. Ma ho un sonno maledetto, comincio una nuova vita domattina: vorrei arrivarci fresco, felice e soprattutto pronto. Come funziona, faccio io? Dai, dammi la 315 e ci vediamo domani. Ok?
Mi passai la chiave, con gli occhi finalmente aperti. Ora sì, avevo paura di me stesso.
Ma del me stesso sbagliato.