L’opera di Byron può essere considerata come una teatralizzazione della coscienza dell’autore. Un mondo che risulta, verso dopo verso, in continua trasformazione, teso a un’espansione e a una complessità che ha pochi eguali nel mondo della poesia e della letteratura in generale.
I risultati di questo operare sono diseguali. Lo tesso autore si definì “una tigre, se sbaglio il primo balzo me ne torno […] nella mia giungla”. L’opera di Byron spiazza tra brevi liriche d’occasione, epigrammi, racconti orientali in versi, poemi di una considerevole ampiezza e drammaturgia. La particolarità sorprendente di questi variegati piani d’espressione, una messa in forma poetica del proprio vissuto, è un’incredibile quanto insolita crescita della propria coscienza, del suo “io” che, sulla pagina, assume i contorni di un disegno globale, organico e, proprio per questo, labirintico.
Prima di tutto, Byron prepara il lettore a subordinare il proprio quotidiano, cioè chiede a questi di emanciparsi dai rigidi limiti del proprio “io” socioculturale: “spogliatevi di questa identità insensata e falsa”. Le valutazioni alla vita non sono mai moraleggianti, ma sorgevano dalle immediati reazioni che l’autore elaborava. Ricongiungendo la letteratura alla vita, il poeta attaccava ogni atteggiamento conformista o anticonformista modellati su un anonimato esasperante, una forma di riassetto dell’individualità instauratosi patologicamente durante la nascente Rivoluzione Industriale: non una qualificazione dell’essere, ma una mera quantificazione. Gran parte dell’opera di Byron è una dichiarazione di guerra alla falsità del privato e all’ambiguità del pubblico, un attacco agli adulatori del Potere, al linguaggio politico che celava (cela!) un’espansione economica tesa a un’antinapoleonica e demagogica filantropia, infarcita di valori civili e umanitari ma che, al contempo, utilizzava il cristianesimo come alibi a ogni guerra, sia continentale che coloniale.
Tutto nasce da un atteggiamento che definirei moderno, ossia il desiderio dell’impossibile: le passioni umane come arma da contrapporre al Potere, il desiderio incessante di detronizzare il Tiranno, sia esso divino che terreno, e i suoi simulacri in favore della liberazione dell’individuo dalle schermaglie sociali, da un’educazione indottrinata fin dalla nascita senza il nostro volere perché impossibilitati a decidere, e da ogni vincolo dogmatico o metafisico. Inoltre vi è la consapevolezza che la verità della poesia s’innalza solo per scomparire, esaurendosi nel retorico. L’arte si fa scrigno di una sincerità che esige il mascheramento. Solo occultandosi e prendendo le distanze dalla comunicazione verbale del quotidiano che la verità può emergere. Il poeta non si fa carico di un significato universale dato per certo, ma di una verità primordiale che viene dissimulata, nata da leggende lontane, profondità arcaiche o atemporali, da una mitologia attualizzata attraverso un’ispirazione sofferta, e che solo su questo processo creativo sussiste.
Tutte le religioni monoteiste in Byron vengono rappresentate come ingiuste e crudeli, ma solo l’amore eleva gli eroi, predestinati a una sorte già scritta dal fato. L’amore byroniano è un sentimento sublime, cioè incommensurabile, troppo grande per questo mondo inadeguato ad accogliere gli innamorati, e che si pone sempre al di là del Bene e del Male. Per il poeta l’amore è l’unica ricchezza che ci è rimasta, l’unica via di fuga.
L’ideale della fusione di due anime e di due corpi, il grande amore viene celebrato da Byron come la redenzione del mondo individuale. Ad esempio il memorabile incontro tra Don Juan e Haidée. La tragicità degli eroi byroniani, anche nel momento culminante e più intenso, è nell’impossibilità del compimento supremo, dove l’Eden ritrovato prelude alla ripetizione inesorabile della mitica cacciata. La forza redentrice dell’incontro amoroso irrompe nell’anima dell’eroe simultaneamente con la meraviglia che suscita il lontano ricordo del primo amore, originario, incorruttibile, e per questo motivo irripetibile. Un ibrido di amore materno e la presa di coscienza della propria sessualità attraverso la perdita dell’innocenza. Tenerezza e sensualità, dolcezza irriducibile e violenza, bisogno d’affetto e impulso esplosivo al coito. Un’ambiguità di fondo, una contrapposizione di sentimenti irrisolvibili annunciano l’uomo del suo tragico destino. Tragico, in altri termini, perché gli affetti su questo mondo si riducono a un desiderio che in realtà proviene da lontano, che continua ad attraversare le nostre vite continuamente, dal quale siamo infinitamente lontani nonostante ci appartenga.
L’eroe byroniano, sempre pallido ed esangue, nasce con una segreta colpa, e che patisce come una malattia inguaribile. Il suo elevato e luminoso sentire, come percezione del reale, proviene da una dannazione congenita alla sua esistenza. Questa involontaria condanna lo emancipa da ogni Male, nutrendo una titanica forza morale che mira a trascendere le leggi umane e divine. Pur non potendo evitare il suo destino, Manfred, a differenza del Faust, rifiuterà di vendere la propria anima scegliendo la morte e l’oblio, piuttosto che compromettersi col Potere.
Nell’opera di Byron la pagina scritta non è un esercizio retorico, ma espressione di dolori reali, dove la vita precede sempre l’arte e la poesia.