“Perché i nostri meravigliosi sensi/ Sono attratti da quanto va oltre la realtà data/ Credono a specchi più felici del Verbo/ E si uccidono?
(J. Laforgue)
In questi versi del poeta francese è racchiuso lo spirito del Simbolismo che, anticipato dalle atmosfere cupe e visionarie di Francisco Goya e William Blake, emerge prepotentemente nella seconda metà del XIX secolo come reazione all’affermarsi della società industriale, in cui positivismo e scientismo ammettono un sola realtà: quella misurabile ed oggettuale della natura.
All’arte si chiede di essere perfettamente aderente al reale, imitando la natura e riproducendo con esattezza ciò che si vede e non ciò che si sente. È il disgregarsi di un sistema di valori, rappresentazioni e simboli che aveva accumunato da sempre l’Europa e di cui erano impregnati la cultura, la religione e l’arte.
E così, nella necessità di un mondo diverso dal reale, indolenza, solitudine, impotenza, duellano con velocità, industrializzazione, progresso. È il mondo dove, contro il “maremoto della mediocrità umana”, si rifugia, l’esteta e stravagante Des Essenteis di À rebours (1884) di Joris-Karl Huysmans e il mecenate di Wagner, Re Luigi II di Baviera, che innalza se stesso a “principe di un regno immaginario”, trasformando i suoi palazzi in incarnazioni delle sue fantasticherie, come Gabriele D’Annunzio che fa della sua villa sulle rive del Garda, un luogo di bellezza, piaceri ed esaltazione della sua “vita inimitabile”.
In Francia, nel 1886, il Manifesto del Simbolismo e la rivista Le Symboliste, pubblicati dal poeta Jean Moréas, insieme a Gustave Kahn e Paul Adam, ridefinisco i poeti maledetti ed antiborghesi (Baudelaire, Mallarmè, Verlaine, Rimbaud) non tanto come decadenti ma più correttamente come simbolisti e il simbolo come strumento di lettura della realtà, capace di rendere tangibile l’intangibile. Nelle parole di Moréas: “La poesia simbolica cerca di vestire l’idea di una forma sensibile”.
Parallelamente Paul Gauguin, iniziatore dell’arte simbolista secondo quanto sostiene il critico francese Albert Aurier nel 1891 in Simbolisme en peinture, si fa promotore del sintetismo, che sovrapponendo naturale e soprannaturale, trasforma forme e colori in cifre stilizzate e sintetiche, spingendosi in avanti per dare esito alle domande che l’uomo, insoddisfatto dalle risposte fornire dal sapere scientista e positivista, si pone (Da dove veniamo, Chi siamo, Dove andiamo? 1898) fino all’immagine trasognata del cavallo bianco che si abbevera alla fonte della natura spirituale, in perfetta sintonia con la visione del poeta surrealista Gustave Kahn: “questa gente è in moto solo per cercare risorse, e la fonte dei sogni s’inaridisce” .
Poco prima, in Germania, è emersa la travolgente personalità di Richard Wagner che non si limita a rinnovare il teatro, dal canto alla messa in scena, secondo il concetto di Gesamtkunstwerk, cioè “opera d’arte totale”, ma si fa portavoce della decadenza del sistema mitico-culturale europeo. Attraverso la tetralogia sulla leggenda dei Nibelunghi (L’oro del Reno, La Valchiria, Sigfrido, Il crepuscolo degli dei) , evocando un passato simbolico, eroico e leggendario esaltato dalla musica carica di pathos, narra gli eventi che portarono alla scomparsa delle divinità nordiche. La creazione del personaggio di Lohengrin, gli consente di ripensare al suo ruolo: “Il bisogno più urgente e più forte dell’uomo perfetto e artista è di comunicare se stesso – in tutta la pienezza della sua natura – all’intera comunità. E non può arrivare a tanto se non nel dramma.”
Se Wagner è simbolista nel campo musicale, Friedrich Nietzsche, anche per il linguaggio poetico ed evocativo di Così parlò Zarathustra (1883-85), lo è nel campo filosofico: “Sono, alla pari di Wagner un figlio del mio secolo, voglio dire un decadente, con la sola differenza che io l’ho capito, io vi ho resistito con tutte le mie forze”. Nietzsche percepisce con estrema lucidità le conseguenze della decadenza del sistema valoriale e del pensiero, riassumibile nell’assunto “morte di Dio” e nel nichilismo, e sottopone ad un critica feroce la scienza che, limitando la sfera d’azione e la validità della filosofia nel processo conoscitivo e riducendo ad una visione univoca la realtà, pone la sua verità come l’unica possibile e la sola dominante. Nietzsche assume il compito di far riappropriare la filosofia, il filosofo e l’uomo dei propri ruoli, vivendo questa esperienza come un eroe tragico, fino al deragliamento mentale, accentuato dalle sue già precarie condizioni psichiche.
In Italia, il primo ad incanalare nella sua opera le tematiche simboliste e decadenti è Gabriele D’Annunzio. Se Il Piacere (1889), impregnato della raffinatezza estetizzante ed erotizzante sviluppata in ambito francese e con uno sguardo al modello di Hyusmans, è romanzo simbolista per antonomasia, Il trionfo della morte (1894) contribuisce a diffondere in Italia il culto di Wagner. Sempre attento ai cambiamenti, da dandy D’Annunzio finisce per incarnare il mito del superuomo, grazie alla sua naturale predisposizone, diffondendo il nietzchianismo sia attraverso la sua vita sia mediante la costruzione dei suoi personaggi, spesso ispirati a se stesso. Il protagonista del romanzo è un superuomo, appassionato dell’opera del maestro tedesco, e di Tristano e Isotta in particolare, che diventa il corrispettivo musicale della relazione distruttiva che intrattiene con la sua donna. D’Annunzio dedica pagine e pagine alla suggestione della musica, facendone il romanzo più wagneriano della sua produzione, nella tensione emotiva e struggente che si consuma nell’omicidio-suicidio finale.
Il Simbolismo e il Wagnerismo, che in ambito letterario raggiungono il loro culmine nella vita e nell’opera dannunziana, non mancano d’influenzare la pittura. Stagione breve dell’arte italiana il Simbolismo dura dall’esposizione milanese del 1891 alla Biennale di Venezia del 1907.
Gaetano Previati è prima sostenitore del divisionismo, parente stretto del pointillisme francese, per poi approdare ad una pittura a metà strada tra verità della forma e simbolismo del contenuto, passa ciòè da una concezione di “arte come scienza” ad una di “arte come scienza dello spirito” . Questo passaggio è espresso perfettamente nella Maternità (1891) in cui l’iridescenza del colore esalta la visione mistica fino a Paolo e Francesca (1901) dove la pennellata dinamica sostiene il dramma dell’amore, sublimandolo in puro stile wagneriano.
Fortemente ispirato dalla musica è anche Lionello Balestrieri che a Wagner dedica due potenti acqueforti , Wagner in esilio e Ritratto di Wagner (1910).
Ne L’Amore alla fonte della Vita (1896) di Giovanni Segantini, le rappresentazioni dei fiori, dell’acqua, dell’angelo sono intrise di simbolismo nell’evocare purezza, speranza, eternità. Del resto Segantini, appassionato di letteratura e di filosofia, legge D’Annunzio e Nietzsche e in quegli anni esegue il frontespizio per la traduzione italiana di Così parlò Zarathustra.
Alberto Martini è, invece, lo straordinario illustratore, il cui tratto poetico dà vita alle tavole che accompagnano le opere di Mallarmè, Verlaine, Rimbaud.
Questi sono solo alcuni dei protagonisti della mostra “Fortuny e Wagner. Il wagnerismo nelle arti visive in Italia” (fino all’8 aprile 2013) a Venezia, presso Palazzo Fortuny, il palazzo che appartenne al pittore catalano Mariano Fortuny, che operò in Italia e che a Wagner dedicò un intero ciclo di opere, quarantasette tra dipinti ed incisioni, un viaggio in quello spirito, quella “melodia infinita” che influenzò l’intera cultura italiana ed europea, contro “il grande sconvolgimento” di fine secolo.
Un altro modo per celebrarlo nel bicentenario della sua nascita.