11 febbraio 1843.
Teatro alla Scala, Milano.
Il maestro Verdi è al cembalo.
Accompagna “I Lombardi alla prima crociata”, l’opera che si snoda tra palazzi e deserti, intrighi di corte, guerra e fede.
Sfoglio i giornali. Ascolto la radio. Seguo interminabili analisi televisive.
Le elezioni del 2013 sono lo specchio di quel nodo irrisolto dal 1860. Della nostra incapacità di Italiani di essere come i padri ci avevano sognati.
O forse i miei sono pensieri di idealista, di romantica innamorata della storia, del mito di un Risorgimento che tarda ad arrivare, come la primavera.
Alla fine dell’opera, un brivido sale lungo la platea e s’invola fino ai palchi.
Il maestro Verdi è il papà de’ cori e questa preghiera dei crociati nel deserto pare raccogliere le lacrime, le nostalgie, il comune sentire di un popolo intero.
Sì, perché la potenza della lirica – ove ogni dramma è un falso ma ti colpisce con la forza di una verità scolpita in ogni nota – trasforma un pugno di coristi imbellettati da lombardi negli Italiani che ancora vagano nei deserti della storia, negli Italiani di là da venire.
“O Signore dal tetto natio ci chiamasti con santa promessa
Noi siam corsi all’invito d’un pio giubilando per l’aspro sentier
Ma la fronte avvilita e dimessa hanno i servi già baldi e valenti
Deh! Non far che ludibrio alle genti sieno, Cristo, i tuoi fidi guerrier
Oh, fresc’aure volanti sui vaghi ruscelletti de’ prati lombardi
fonti eterne e purissimi laghi o vigneti dorati dal sol!
Dono infausto, crudele è la mente che vi pinge sì veri agli sguardi
ed al labbro più dura e cocente fa la sabbia d’un arido suol”…
Chiudo il giornale. Spengo la radio e la tv.
Le parole scritte parlate urlate non riescono a popolare il deserto di questi giorni.
Forse anche per l’Italia scorreranno le acque del Siloe.
E saranno ruscelli, prati, vigne, aria nuova.