L’uomo ha preso l’auto alle otto di sera, ha viaggiato per mezz’ora circa poi ha parcheggiato. Ha poche cose con se: uno zaino, un coltello, una giacca sopra il maglione, una lampada frontale e poi due piedi negli scarponi, due gambe sotto i pantaloni, due polmoni e volontà di salire. Il sentiero si scorge appena al di là del ponticello sulla destra del masso più grosso. Comincia a fare buio. Servono 3 ore per salire e siamo in settembre, fa già freddo di sera.
L’uomo prende il sentiero e comincia la salita, passo dopo passo, sfiata, scracia uno sputo e riparte. È l’unico a far rumore nella piccola valle, i suoi piedi cadono sulla terra tirati giù dal peso degli scarponi che si alzano tirati su da qualche muscolo più o meno allenato.
La marcia del montanaro è sempre regolare, la si sente da lontano, è rumore umano, estraneo all’ateneo, è esperienza tramandata con l’esempio, la si impara camminando.
L’uomo ha lasciato i faggi del boschetto dietro le spalle ora, davanti c’è la pietra che lo porterà alla roccia e sulla roccia la cengia da passare.
La fatica comincia a farsi sentire, ha rodato ormai ma ancora non ha raggiunto il punto di non ritorno, quando non dici più nulla a te stesso perché a parlare sono i piedi: Se ci fermiamo è per non muoverci più, sappilo uomo che sali di notte, sappi che d’ora in poi devi arrivare in fondo, dicono.
E l’uomo sa ascoltare il suo corpo, si prepara ad andare oltre e non si fermerà. Stacca una madonna che regala al cammino e un cristo anche per quell’idiota del Massimo che poteva anche venire lui invece d’impigrirsi al bar. Ci si perde in pigrizia invecchiando.
Si ferma finalmente e appoggia il piede destro su uno spuntone di roccia e così, con la gamba sollevata, riposa un piede e il braccio, che appoggia sopra il ginocchio, come faceva suo zio: la posa dell’alpino. Alza gli occhi e spegne la torcia che porta sulla fronte, la giacca già non c’è più, avrebbe voglia di levarsi anche il maglione tanto è sudato, ma si controlla e lo tiene.
La luna è piena, rotonda e bianca, è sorta finalmente, e ora c’è luce e ombra e i profili delle vette intorno sono come il profilo di grandi fette di parmigiano, gli viene voglia di staccarne un pezzo.
Sarà poesia questa? Questo silenzio, questa immobile presenza? L’uomo non conosce molto di poesia ma è sensibile e sente il fremito dell’ansia e cerca pace con fatica.
Sarà poesia salire in montagna di notte? O sarà preghiera? L’uomo sente gli occhi della montagna addosso, la percepisce viva e chi lo vedesse ora lo troverebbe ad occhi spalancati e orecchie tese a captare i segnali che le cose vive dovrebbero emettere.
Gli vengono in mente l’Inghilterra e la sua campagna. Ricordi che montano dal fondo, sepolti probabilmente sotto tutte quelle madonne. Con loro risalgono le voci di quel piccolo cortile sul retro della casa di mattoni rossi in Orbey Road e la parlata del Merseyside, dove i lavavetri che scavalcavano i vari muretti divisori delle casette ex-operaie, una appiccicata all’altra, nella Liverpool del 1999, chiedevano un pound per il servizio. Ricordi di lucchetti d’ottone e acciaio che si chiudono e del freddo di una chiave che ancora conserva. La pace di Anne che leggeva.
La pace qui, ora non c’è. Per ora c’è solo rabbia e bestemmie e volontà da forgiare, da mettere alla prova un volta ancora, nervi da sfogare e sofferenza …e c’è anche la paura: la paura di non farcela, la paura dell’imprevisto, la paura nell’affrontare il buio al freddo e quella d’esser soli. Non dimentichiamo che quest’uomo è solo stasera, alto un buon duemila metri di quota, lontano dal mondo, in una notte di luna piena e sta salendo un sentiero verso un bivacco… un po’ di paura gliela concediamo. Sua madre glielo chiese un giorno se non aveva paura a salire da solo di notte, a restare solo a dormire in quel buco di lamiera rossa senza un anima intorno. Lui le rispose che a volte faceva più paura restare di sotto. L’avesse mai trovato uno come lui, forse sarebbe andata meglio questa sua vita da scapestrato, piena di grilli per la testa e di non troppi successi.
Una a dire il vero l’aveva anche trovata, una per nulla come lui, così attenta a certi dettagli… ma, non si erano trovati d’accordo e aveva scelto altri porti, altre domestiche mura. Lui l’avrebbe tenuta, non tanto per alti slanci di sentimento o lungimiranti calcoli domestici. Lui l’avrebbe tenuta perché lo completava, lo controllava e lo riappacificava col resto. Però lei cercava altro, lo disse chiaro e lo lasciò un giorno di settembre. Non si è mai saputo se quell’altro anelato l’abbia, alla fine, mai trovato.
Fatto sta che qualche madonna era partita anche a causa sua stasera e l’eco non l’aveva rimandata.
La cengia è un passaggio difficile e un po’ pericoloso ma la conosce a memoria, sale su questo sentiero da quando era bambino e quindi l’affronta veloce e sicuro. Stavolta però si lega alla fune di sicurezza, è la prima volta che lo fa. Sarà che le madonne uscendo hanno scoperchiato anche un po’ di ragionevolezza, sarà che semplicemente, di lasciarci la pelle non ne ha voglia e chi l’osservasse adesso lo vedrebbe piuttosto impegnato a legare bene quel nodo sul morsetto.
Sono 13 passi uno di fronte all’altro su una lamina scivolosa, a sinistra la spalla sfiora la parete, a destra il soffio dell’abisso ti arriva dritto agli occhi. Lui non guarda di sotto ma dritto davanti e cerca di fare in fretta che prima se la leva prima scaccia il pericolo e prima arriva al bivacco.
Quindi i passi si sovrappongono da Uno a Due, poi seguono gli altri, suola dopo suola gli scarponi ubbidiscono ai piedi che ubbidiscono ai comandi centrali…e Cinque e Sei, attento qui che si scivola, tienti stretto contro la parete…e Otto e Nove, Dieci, Undic…ecco lo sapeva, ora scivola, non sta in piedi, la suola perde aderenza, la forza del peso scarta di lato e d’un baleno il piede perde la sua ragione d’essere: un posto dove appoggiare. Plof, tock…taff taff …sono le mani che sbattono contro il pavimento della cengia, il ginocchio batte di brutto sulla pietra e… e non gli resta che pregare a quest’uomo; così si lancia in un rosario bello gravido di cristi in croce e vergini di riserva, pronunciato tra i denti stretti a non mollare, a tener duro.
La corda tiene, lui è appeso per metà e per metà ancora sulla pietra…NON QUI, NON COSI’ …stasera non si muore, non è il momento, stasera non ci si fa male, stasera ci si rialza. Il fiato esce potente nello sforzo, i bicipiti spingono e le leve di ossa e carne lo alzano e lo rimettono a sedere, poi la fune di sicurezza è una presa facile.
Al sicuro apre appena la bocca e sorride, di un sorriso d’alpinista di denti bianchi alla luna. Non ci si fa male stasera, stasera si arriva sani e salvi. Sani e Salvi. Salvi, stasera lui è un Salvo.
Riprende fiato e così riesce a calmare il cuore che si ostina a battere contro il suo sterno come un picchio contro un salice. Dev’essersi graffiato una guancia strisciando contro lo spigolo di roccia perché l’uomo ora si sta passando una mano sopra lo zigomo e sente caldo e umido. Lo spavento l’ha rinvigorito, aver scampato il pericolo l’ha ringiovanito. Si sente padrone di sé, sente il controllo di tutto se stesso dai capelli agli alluci negli scarponi, sente la montagna soffiare dentro e fuori le narici. È un soffio piuttosto freddo che gli entra dentro dove invece fa un caldo di locomotiva a vapore. È salvo.
Alle undici e mezza finalmente l’uomo raggiunge il bivacco, è abbastanza stanco ma non troppo da sottrarsi allo spettacolo che ha di fronte. Si versa una tazza di tè e accende una sigaretta poi si siede. Di fronte ha la valle pienamente illuminata dai raggi della luna. Le creste che vede alte di fronte sembra si congratulino come generali, sull’attenti. Il silenzio è come un lenzuolo disteso ad asciugare, il cielo incontra le cime nere sulla destra e sembra quasi le rispetti accogliendone il profilo. Siamo vicini al cielo qui, chi si salva si avvicina.
L’uomo si chiede se è un intruso, si chiede se è accettato o meno e se la sua gratitudine può trovare un posto in questa rappresentazione…l’uomo si chiede come può manifestarsi e ringraziare. Così lo vediamo aspirare il fumo nei polmoni belli aperti e vacillare un poco, poi dietro il punto rosso della brace scorgiamo gli occhi di un bambino, ed è un bambino felice.
Ahh! Che sia allora questo il modo più diretto ed economico, nonché esaustivo per ringraziare? Vogliamo credere di sì, essere felici.
D’altra parte fare felice qualcuno è forse la più alta delle soddisfazioni (e i bambini lo sanno bene per esperienza diretta, come allo stesso modo sanno bene che far piangere qualcun’altro ha la stessa valenza di soddisfazione…ma questo è un altro discorso) e la montagna o chi l’ha inventata per noi, a veder questi due occhi contenti non può che ritenersi soddisfatta.
Così tra un luccichio di occhi e un tiro di sigaretta l’entusiasmo sminuisce e l’uomo ritorna uomo.
Alzandosi, scracia una salva sul masso più vicino e spegne la sigaretta conservandone il mozzicone.
Entra nel bivacco poco dopo, richiude la porta di metallo dietro di se e s’infila nel sacco. Legge due righe sul quaderno delle visite dove gli ultimi a passare sembravano essere stati due francesi, saliti 2 settimane prima dalla Roya e finalmente, con soddisfazione, spenge la lampada frontale. Ora si fanno le prove per dormire: prima sul fianco sinistro, poi su quello destro, poi forse è meglio uscire dal sacco perché la temperatura nel bivacco non è poi così maluccio, poi si rientra nel sacco perché in fondo in fondo si è sempre sopra i duemila e in settembre per giunta, poi forse se mi mangiavo qualcosa di più ora starei più rilassato, poi (merde!) devo far pipì! Poi… poi… poi…
C’è un bivacco di lamiera rossa a 2134 mt di quota sul gruppo dell’Argentera, è intitolato ad un alpinista. Questo bivacco stanotte ha dentro un uomo. Vogliate voi che leggete avere pazienza e lasciarlo riposare, chiederemo alle cime un medesimo favore, di voler senza indugio alla sua sicurezza provvedere cosicché della solitudine più non abbia a temere.
Le vette intorno, come sentinelle dai bruni profili severi, si stringono e si organizzano per respingere ogni offesa e portar calore dove è la pietra fredda, schierandosi a sua privata difesa.