Il nostro viaggio, in compagnia di Dante e Virgilio, prosegue. Siamo ora nel sesto cerchio, nella città di Dite. Quello che si presenta al cospetto dei pellegrini è uno spettacolo pauroso; Dante costruisce una scenografia sensazionale, degna dei migliori film dell’ horror: un’aura spettrale, un cimitero immenso, un silenzio interrotto solo da inarticolati lamenti. Nessun dannato, nessun demonio a guardia, solo un gran numero di tombe scoperchiate, e per di più arroventate: siamo nel luogo dove scontano eternamente la loro pena gli eretici. In particolare, la fantasia di Dante si rivolge ad una particolare specie di eretici: gli epicurei. Oggi, li chiameremmo – forse semplicisticamente – materialisti: sono coloro che l’anima col corpo morta fanno. Il Poeta ha probabilmente in mente i roghi con i quali le leggi del tempo condannavano gli eretici. Tra i sepolcri in fiamme troviamo anche uno dei più grandi imperatori di tutti i tempi, Federico II, e due uomini di chiesa: un cardinale, Ottaviano degli Ubaldini, e addirittura un pontefice, Anastasio II.
Ma il dialogo non si svolge con loro. Per sempre, il canto X dell’Inferno sarà il canto di Farinata degli Uberti e Cavalcante de’ Cavalcanti, padre di Guido poeta stilnovista. Il primo si rivolge a Dante con due terzine scolpite nella storia:
O Tosco che per la città del foco
vivo ten vai così parlando onesto,
piacciati di restare in questo loco.
La tua loquela ti fa manifesto
di quella nobil patria natio,
a la qual forse fui troppo molesto.
Sono parole straordinarie, cortesi ma decise: vi è la coscienza di un nobile impegno politico, e in nuce la figura del magnanimo e orgoglioso Farinata, il ghibellino della Commedia, che sembra nutrire amore profondo per la patria, nonchè rammarico per aver dovuto ricorrere alla forza delle armi contro di essa. Dante si intimorisce a tali parole, ma – spinto da Virgilio – comincia ad interagire con il dannato, il quale gli chiede chi siano i suoi antenati. Alla risposta del Poeta, Farinata levò le ciglia un poco in suso (segno di superbia: si pensi che con questo solo gesto Lucifero si ribellò a Dio!): afferma che la propria famiglia e quella di Dante sono state nemiche. Ghibellini contro guelfi: in questo straordinario confronto politico, il dannato vanta il merito di aver esiliato più volte i secondi; ma Dante, punto nell’orgoglio, risponde a tono: i suoi hanno sempre appreso l’arte del tornare, cosa che evidentemente non ha imparato la famiglia del ghibellino.
A questo punto entra in scena, come su un palco di teatro, un altro personaggio: si tratta del padre di Guido Cavalcanti, l’amico poeta di Dante facente parte della corrente dello Stilnovo. Ed è un altro capolavoro della letteratura, condensato in pochi versi: il dannato non solo riconosce Dante, ma si sbilancia nello spiegare la ragione del suo viaggio, cioè l’altezza d’ingegno; se questo è quanto, perchè suo figlio non è con lui? Dante risponde che il viaggio è dovuto a qualcosa di più: è voluto dall’Alto, per mezzo di Qualcuno forse cui Guido vostro ebbe a disdegno (probabilmente il Poeta si riferisce qui a Beatrice, simbolo della Teologia). L’attenzione dell’anima è colta da quel verbo al passato, ebbe: di qui la disperazione, mossa dall’errata deduzione che il figlio sia morto. È questa una delle più grandi poesie di sempre sull’amor paterno. All’indugiar di Dante, Cavalcante de’ Cavalcanti si inabissa nell’arca infuocata che lo accoglie, per non risorgere mai più.
Riprende ora il dialogo interrotto con Farinata. Viene ricordata la celebre battaglia di Montaperti: il fiero ghibellino rivendica le sue ragioni e l’amore per la propria Firenze, che solo contro tutti aveva tentato di difendere. E piazza la famosa profezia post eventum: non saranno passati cinquanta mesi – dice a Dante – che tu stesso apprenderai l’arte dell’esilio. Più che dispetto e ripicca, sembra di veder qui un destino comune di sofferenza solidale. Poi, su invito del Poeta, Farinata chiarisce l’equivoco di Cavalcante: i dannati conoscono le cose future, non le presenti. Il padre di Guido Cavalcanti non poteva dunque sapere della sorte terrena del figlio, e aveva interpretato l’uso del verbo al passato e lo smarrimento di Dante come una conferma del suo sospetto. Il Poeta pellegrino, meravigliosamente umano tra le anime, prega Farinata di riferire a Cavalcante che il figlio è vivo, e che il suo indugio era nato proprio da questo malinteso.
Non si fa mai cenno all’ “eresia” dei due dannati. Ma in loro c’è il forte, fortissimo attaccamento alle cose terrene: la politica per l’uno, l’amor paterno per l’altro.
Turbato dalla profezia che lo riguarda, ma rassicurato come al solito dalla sua guida, Dante abbandona il sentiero e prosegue il suo viaggio…