È, per molti, il canto più maestoso della Commedia. Di certo, è in assoluto uno dei più emozionanti e coinvolgenti.
I due poeti pellegrini giungono giungono al secondo cerchio dell’Inferno, primo dei quattro in cui sono puniti gli incontinenti, cioè coloro che in vita non sono riusciti a frenare gli istinti entro i limiti della ragione. Dante lo spiega con un celebre verso: sono, appunto, coloro che la ragion sottomettono al talento. In questo caso si riferisce ai lussuriosi, che qui espiano la loro colpa: travolti dal desiderio carnale e dalla passione, sono nell’aldilà travolti e percossi in eterno da una bufera incessante. Il contrappasso è così evidente che il protagonista del viaggio capisce subito quale sia il peccato punito, senza l’ausilio della spiegazione virgiliana.
A inizio canto si staglia la terribile figura di Minosse, giudice infernale, il quale ringhia orribilmente e giudica i dannati in un modo del tutto particolare: egli attorciglia la coda attorno al corpo tante volte quanti sono i cerchi che i dannati dovranno scendere per giungere al luogo della loro eterna punizione. Grida minaccioso contro Dante, ma viene acquietato dal solito Virgilio, che lo ammonisce circa la volontà divina di questo viaggio, proprio come aveva fatto con Caronte.
Superato Minosse, entriamo insieme al nostro eroe nel cuore di questo luogo di dannazione: si odono strida, lamenti, bestemmie. Le anime sono sballottate quà e là dalla forza impetuosa della bufera, ma alcune di esse procedono in fila indiana e suscitano la curiosità di Dante, che chiede alla sua guida l’identità delle anime stesse. Virgilio soddisfa come sempre la sua curiosità ed enumera una serie di “celebri lussuriosi” di ogni tempo: Semiramide, regina degli Assiri; Didone, Cleopatra ed Elena, la quale fu causa della guerra di Troia; e poi Achille, Paride, Tristano.
Il Poeta, già mosso a pietà da questa visione, espone a questo punto il desiderio di parlare con due anime che, a differenza delle altre, ‘nsieme vanno. Le chiama, e quelle vengono, come colombe che vanno al nido. Comincia da qui una delle storie più belle che i versi abbiano mai potuto narrare: è la storia meravigliosamente tragica di Paolo Malatesta e Francesca da Polenta, cognati. Innamoratisi, vengono scoperti da Gianciotto Malatesta, fratello del primo e sposo della seconda, e uccisi. Dante attinge alla cronaca contemporanea (e già Foscolo osserva come questo, nella poesia impegnata, sia un fatto senza precedenti): si tratta di un episodio che colpì molto l’allora ventenne poeta, il quale in seguito decide così di consegnare all’immortalità letteraria la storia dei due amanti. Ed è anche, oltretutto, una confessione della stessa Francesca:
Amor, ch’a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m’abbandona
Dante china la testa, triste e pensoso. Chiede che gli venga narrato come sia scoccato l’amore tra i due e come li abbia colti la morte, e Francesca narra: stavano leggendo la storia di Lancillotto e Ginevra, quando – al momento dell’appassionato bacio tra i due amanti della tradizione celtica – Paolo e Francesca si lasciano andare al bacio “galeotto” a lungo desiderato. Quindi la scoperta di Gianciotto e la morte. È un racconto straziante per il Poeta: mentre Francesca racconta, Paolo – a lei legata in eterno – singhiozza e piange.
Per secoli i critici hanno dibattuto su quello che può essere considerato il filo conduttore del canto: la pietà. È una pietà che non esclude la condanna e non cancella la colpa: si può, evidentemente, ritenere giusta una condanna e nel medesimo tempo sentire empatia con il condannato, emozionarsi. Soprattutto capire, mettersi nei panni dell’altro: la fragilità di Francesca è la fragilità di Dante, e di tutto il genere umano.
L’emozione è troppo forte, la pietade ha il sopravvento. Dante sviene, e lo fa con un endecasillabo meraviglioso nella sua semplicità:
E caddi come corpo morto cade