“Ma sei pazzo?” Forse sì, forse no. Boh. Cosa vuol dire poi essere pazzo, fuori di testa, uscito di senno? Il tema della follia percorre l’arte e letteratura italiana e straniera fin dalle origini. Scrittori, poeti, uomini di teatro, artisti, musicisti si sono interrogati su cosa voglia dire essere sano, normale, e cosa definisca l’anormalità, la pazzia.
Si potrebbe cominciare da molto lontano, ma partiamo da Ludovico Ariosto e dal suo Orlando Furioso, per poi passare all’emblematica e controversa figura di Torquato Tasso, per arrivare ai Canti orfici di Dino Campana. Il folle è protagonista, ed insieme a lui, la sua distorta visione del mondo e della realtà che lo circonda. In essa uomini e donne, animali e oggetti inanimati prendono forme e ruoli distorti, contaminati dalla fuorviante visione di una mente che ignora codici di comportamento e di pensiero. La libertà del folle, e con essa l’accettazione derisoria della sua condizione, perturba la coscienza e il corpo del lettore-spettatore che è portato ad interrogarsi sul limite vero, se esiste, fra pazzia e norma.
In maniera del tutto simile, i protagonisti delle opere di Luigi Pirandello vivono questa scissione contraddittoria dell’essere e dover essere. Vitangelo Moscarda è Uno, nessuno e centomila. Folle o sano, chi può dirlo? La domanda lui non se la pone perché ha già la risposta: mette in valigia tutte le maschere che ha e parte per non ritornare. La sua fuga dal mondo passa attraverso il suo voler apparire pazzo, fuori da tutto.
Il triestino Italo Svevo ci rivela ne La coscienza di Zeno la folle normalità del signor Cosini. Sanità apparente e follia dilagante sono categorie promiscue nella vicenda del protagonista. Come in Pirandello, la pazzia diventa un alibi, un modo per fuggire e difendersi da un contesto sociale avulso e nel quale non ci si riconosce. Partire, come fa il signor Aghios in Corto viaggio sentimentale, significa sospendere il tempo e viaggiare nello spazio, per cercare e arrivare a cosa non si sa. Svevo lascia, forse volutamente, il racconto incompiuto.
Il mistero che circonda la pazzia, il suo essere visibile e nascosto allo stesso tempo, percorre anche la letteratura straniera. Non si può non ricordare il Don Quijote di Cervantes, il dubbioso Amleto di William Shakespeare e il visionario quanto lugubre racconto di Edgar Allan Poe, Il crollo della casa Usher. Tralasciando colpevolmente la ricca letteratura gotica inglese e americana, entrambe abbondanti di pazzi, maniaci e fuori di testa, arriviamo al Trauma di Patrick McGrath e le anomalie del suo protagonista, Charlie Weir. Chi è davvero, non potremmo dirlo. Il suo shock post-sociale annebbia la percezione e il contatto con il reale. Interpretiamo la sua storia attraverso le parole e lo sguardo fuorviati e fuorvianti di una maschera inconsapevole.
Una pantomima che ritroviamo nelle opere di Giorgio de Chirico, nei suoi manichini spaesati e stretti in un mondo colorato ma asfittico. O nelle vivide pennellate di Vincent van Gogh, nei quadri allucinati di Jackson Pollock, in quelli liquidi di Salvador Dalì. Volendola musicare, Robert Schumann e Arnold Schoenberg saprebbero come disporre le note in maniera schizofrenica.
Recitiamo e fingiamo anche noi sullo stretto palcoscenico della vita, senza sfondo ed effetti speciali. Scegliamo con cura i nostri costumi di scena, il trucco e il parrucco. Un sorriso e una smorfia, una lacrima e un sospiro per nascondere, rivelare, non dire. Proteggiamo senza volerlo, forse inconsciamente, il nostro essere folle e ribelle che ci abita e ci mantiene in vita, perché sappiamo, come diceva già Marcel Proust, che cessando di essere pazzi rischieremmo di diventare stupidi.