La porta che sbatte e rimbomba per un po’, quindi il silenzio.
Lentamente apro gli occhi: l’armadio spalancato; i trucchi sparpagliati sul comò; la spazzola in bilico su un angolo del comodino; la sveglia che ticchetta indolente; il gatto che è venuto a raggomitolarsi ai miei piedi, e nessun altro in casa.
Sì, è proprio venerdì.
Ho poche ore, poi, di nuovo, mio figlio; il pranzo; i piatti; mia moglie, solo trecentosessanta minuti.
Doccia, shampoo, borsa, giaccone, chiavi, treno, ufficio, gli altri giorni è così.
Oggi no.
Oggi, rimango a letto.
Ho aspettato tutta la settimana di poter dormire, fino alle dieci, alle undici forse, mandando al diavolo tutto.
Il lavoro, gli impegni, i doveri, la famiglia, oggi non voglio pensare, voglio le mie ore di buio in più.
Il nero è un colore che mi è sempre piaciuto, sta bene su tutto, sulle delusioni, sulle frustrazioni, sulle litigate, lo indossi, et voilà, non esiste più niente, non senti più nulla, voli via, lasciando tutti con un palmo di naso.
Perciò serro gli occhi e mi concentro.
Il gatto, però, comincia a raspare; l’officina di sotto a provare i motori; la gente a ciarlare; l’inquilina di sopra a lucidare il parquet.
Ogni rumore è un lampo che sposta il buio più in là, finché acchiapparlo diventa impossibile.
Ma è inutile maledire il mondo intero, è colpa mia.
Che non ho studiato; che non mi sono laureato; che sono costretto a un lavoro di merda e per giunta part time; che ho una settimana più corta degli altri.
Che oggi lavorano e se ne fregano se io ho solo una mattinata.
Pantofole, caffè, bagno, gli occhiali, un libro, e tutto il tempo che voglio.
Almeno questo, almeno oggi.
Ma il libro è noioso, De Carlo proprio non lo sopporto.
Non l’ho comprato io, è un regalo di Natale.
Sbagliato.
Come tutti i regali di mia moglie, quando non sono io a dirle cosa comprare.
– So che ti piace – mi ha detto, confondendolo con De Cataldo. Quattro lettere uguali e ora sono qui fermo a pagina duecento senza riuscire ad andare avanti.
I libri sono gli unici amici che mi sono fatto, i soli che non mi hanno mai abbandonato e quando qualcuno di loro non mi piace per me è un tradimento. Li leggo lo stesso per non farli arrabbiare, ma è una sofferenza che, alla fine, mi lascia spossato.
E se questo succede di venerdì, la pena è doppia.
Chiudo Villa Metaphora, per oggi basta così.
Riempio la vasca.
Oggi che posso, che ho tempo, voglio stendermi e galleggiare senza peso, provare a sentirmi leggero.
Una, due, tre.
Il vapore non basta, addormento i pensieri contando le mattonelle, ci provo.
Quattro, cinque, sei.
Questa è rotta, conterà per due?
Sette, otto, nove.
Per dieci, fa novanta, per tre fa duecentosettanta.
Altra acqua, ma la caldaia funziona solo a tratti e quella che verso è più fredda che calda.
Glielo dico sempre che si deve aggiustare, ma lei niente.
– I tempi sono cupi, bisogna fare economia, arrangiamoci.
E intanto altro tempo è passato, la nebbia è calata e io devo scrivere.
Scrivania, computer, eccomi alla plancia da cui dirigo il flusso dei miei pensieri, cui cerco di dare forma, ordine e sostanza.
In realtà mi do delle arie, ho bisogno di tranquillità e di silenzio, dico a mia moglie, perciò scrivo di venerdì.
Ma non è vero.
Lo faccio quando capita e quando mi viene voglia e questo non succede quasi mai nella mia mattinata libera. L’idea, però, di uno scrittore che, da solo, nella casa vuota, si lascia trasportare dalla propria arte mi piace, e la contrabbando volentieri.
In questo modo mia moglie si guarda bene dal chiamarmi, non osa disturbarmi temendo di guastare l’ispirazione, e io ci guadagno qualche altra ora di tranquillità che passo quasi sempre a cazzeggiare su internet.
Le due, sta per tornare mio figlio
Pentola, acqua, pasta, pesto, un altro venerdì se ne è andato.
Ma per fortuna la settimana prossima ne viene un altro.