lui lo vidi per la terza volta dopo la partenza del mio carabiniere allegro, che allegro non era più.
dovevo preparare un lavoro, ma non potevo farlo da sola, e l’unica persona a cui avrei potuto chiedere aiuto era lui. sinceramente, mica era una scusa. e poi era un’occasione anche per lui, io lo sapevo e la cosa mi dava un piacere profondo.
lo chiamai al suo numero, che avevo, ma non avevo mai usato. prendemmo appuntamento con naturalezza, come se ci fossimo sentiti ogni giorno dall’ultima volta in cui ci eravamo incontrati, decidendo di vederci in un piccolo bar a metà strada tra le nostre città.
il lavoro lo preparammo bene, con i portatili accesi, vicini, identici naturalmente, la stessa immagine sul desktop, i tasti bollenti a fine giornata. bevemmo litri di caffè. fu divertente, litigammo perfino, a un certo punto. eravamo precisi, professionali, ci facemmo le pulci a vicenda. mentre lavorava era irresistibile. nemmeno una volta parlò con la voce da bambino.
mi ripromisi di dirglielo, ma non sapevo se l’avrei rivisto mai più.
era sempre tutto così definitivo.
non volevo salutarlo alla stazione, comunque. già così, solo con quel paio di incontri alle spalle, le stazioni erano diventate per me un monumento alla sua memoria, e non volevo amplificare quella sensazione assurda per poi non liberarmene mai più. così prenotai un treno di ritorno in un orario diverso dal suo per vivermi la stazione in santa pace, magari con un tramezzino del bar in mano.
ma la mia vita fece l’incauto errore di abbracciarlo davanti a un bancomat qualsiasi, un bancomat rotto, mentre un piccolo chiosco poco distante mandava un pezzo di Luigi Tenco.
io non volevo e lui non voleva, per motivi diversi, però ci baciammo lo stesso, davanti al bancomat, con Tenco a far da testimone. un bacio vero e inevitabile, piccolissimo. fin troppo piccolo. le smancerie mi hanno sempre dato fastidio. ma il bancomat mi parve diventare di un altro colore, mentre la canzone continuava ad andare all’infinito.
me andai via senza voltarmi, e lui capì. salii sul treno senza tramezzino, e mi addormentai. dormii di un nero sonno prenatale che avevo provato solo un’altra volta nella vita. dormii fino alla stazione di casa. mi svegliò il controllore. mi avevano rubato la borsa. non sapevo cosa pensare di me stessa.
passai la notte a guardare in strada dalla mia finestra. il giorno dopo fu un giorno in cui la fame mi stava spezzando il cuore.
ripresi il treno, prestissimo, come un pendolare prende il pullman che lo porta in fabbrica.
scesi alla sua stazione e me la feci a piedi fino a casa sua, non so come, visto che c’ero stata solo una volta tanti anni prima.
era a casa. c’era una stampa nuova sul muro. la stessa stampa che avevo comprato per casa mia qualche giorno prima. su quel muro attaccai anche la mia paura.
io non ero mai andata via. lui disse che non aveva mai smesso, poi tacque. nessuno al mondo pronunciò più una sola parola, quel giorno. nessuno nell’universo.
tutto era silenzio, in natura. e fu tutto piccolo, piccolissimo. mi baciò la cicatrice del labrador, e gliene fui così grata che riprese a sanguinare. la stanza diventò di un solo colore, il colore di un dente spezzato che avevo così vicino agli occhi da non capire più se era il mio o il suo.
e infatti, all’improvviso, mi si spezzò un incisivo. è ancora rotto.
quando mi entrò dentro fu come una offerta, un gesto sacro. mi sentivo trapassata come una santa martire, e nuova come una margherita. mi toccava come si tocca la vita, o la morte. ero una divinità preincaica che decide della sorte di un popolo. ero mia madre e sua madre, e forse non se n’era mai andato. era un esercito di soldati al fronte durante la prima guerra mondiale, la stessa urgenza di sapere di essere ancora vivi. in quel momento avrei potuto dare vita a un cucciolo di labrador, all’anticristo, a un figlio. in quel momento avrei potuto anche morire, non avrebbe fatto nessuna differenza. respiravo come un animale senza riconoscere il mio suono, ma riconobbi il suo.
era piccolissimo e grandissimo. il mio corpo lo mangiò, e nacque l’alba.
durò pochissimo e nessuno di noi due riuscì a portare a termine l’impresa di prendersi tutto.
era già abbastanza essere vivi.
mi addormentai mentre eravamo ancora attaccati per la pancia, senza sentire il peso, il luogo o il perché di tutto quello che era accaduto. semplicemente, ero.
mi svegliai dopo sette ore, e ne trascorsi un paio a chiedermi perché non correvo in cucina, mentre la sua mano addormentata era attaccata ai miei capelli, che erano ricresciuti, lunghissimi. ero felice di non averli più tagliati. avevo un motivo.
poi riuscii a muovermi, arrivai in cucina.
in un piccolo forno tecnologico era cresciuta nottetempo una forma di pane. mi aveva fatto il pane. a casa, come in un romanzo.
e capii. capii tutto quello che avrei dovuto capire fin lì. per la prima volta, in tutta la mia vita, non avevo fame.
voi che avreste fatto?
mentre dormiva, gli presi un paio di jeans e una maglietta. mi entrarono a forza, era quasi troppo magro, perfino per me, che sono solo una donna. lasciai lì tutti i miei vestiti. tornai a casa, nella mia città, con un pullman da pendolare. ci misi molte ore, ma erano necessarie.
rimasi sveglia, ma avevo la pancia piena. è così da quel giorno.
non sono più entrata in una cucina che non fosse la mia.
ora sto aspettando di diventare abbastanza vecchia per essere felice. ma sono ancora così giovane. così tanto giovane.
non mi ha cercato. lui sa, perfettamente, come se glielo avessi spiegato. non posso cercarlo: io devo nutrirmi. io voglio vivere. voglio diventare vecchia. e se smettessi di mangiare morirei, anche se sono una divinità preincaica.
ma spesso me ne vado alla stazione e lascio che la vita vada come vuole. o dove deve. la stazione è il posto giusto per aspettare il futuro.
sono cambiate così tante cose, e non è mai stato merito mio. il merito è sempre della vita.
non ho più fame, ora. e mi piace mangiare.
e il mio cibo preferito è il pane.