N***, marzo 20**
È stato rinvenuto durante i lavori di recupero di una preziosa biblioteca data alle fiamme un breve manoscritto, salvato dalla distruzione per puro caso. Pur non essendo di grande valore letterario, riteniamo opportuno pubblicarlo in omaggio alle meraviglie distrutte da una mano ostile.
“Un giorno di tanti anni fa, non molto lontano da qui, vide la luce una città così bella, ma così bella che alcune fate la scelsero come loro residenza. Tutto vi brillava, tutto vi era perfetto. Le fate benevole avevano regalato alla fortunata città ogni bellezza: il mare più blu, il sole più tiepido, una lingua musicale e una grande montagna a proteggerla. Le reti dei pescatori tornavano stracolme di pesce, gli orti producevano frutti meravigliosi, gli abitanti vivevano in pace tra loro e col mondo intero: non mancavano mai, in questo luogo benedetto, feste e banchetti durante i quali fate e mortali danzavano insieme.
Malauguratamente tanta gioia risvegliò un drago imprigionato nel sottosuolo che iniziò a brontolare. Sbuffi di fumo avvolsero la cima della grande montagna che sovrastava la città, ma il sole brillava così alto, la musica era così piacevole, che tutti decisero di ignorare la cosa: e continuarono a danzare felici.
Sotto la superficie, il drago irritato si mosse più di una volta, girandosi e rigirandosi, e sbatté fragorosamente la coda spinosa: dalla montagna colò la sua bava rovente che travolse abitazioni e uomini, e la stessa terra si aprì provocando rovina. Ma la musica coprì i lamenti e, anche senza casa, dormire sotto stelle così luminose sembrava una fortuna. Così nessuno pensò ad una minaccia, e quella sera stessa tutti gli abitanti della città della fate si recarono ad un banchetto.
Ma il drago ormai era infuriato e, non potendo uscire dal suo regno sotterraneo, convocò degli esseri malvagi che abitavano le zone più oscure degli inferi e ordinò di far smettere tutta quella felicità che gli impediva di trovare riposo. In qualunque modo.
Gli esseri oscuri, essendo -come detto- maligni e invidiando la luce, il tepore e la compagnia delle meravigliose fate, obbedirono con entusiasmo. Assumendo le sembianze di esseri umani risalirono verso la superficie e si sparsero nella città con la silenziosità dello scarafaggio e la pericolosità del serpente velenoso. Si insediarono ovunque e si moltiplicarono senza farsi notare, nascosti in anfratti bui; poi si mischiarono ai pacifici cittadini. Neanche le fate riconobbero in loro il pericolo: così gli esseri oscuri divennero pian piano i veri padroni della città.
Dove il mare era più limpido, gettavano i loro escrementi. Dove gli orti erano più rigogliosi, seminavano erbe infestanti e cicuta. E quando gli abitanti, avvezzi all’abbondanza, iniziarono a soffrire la fame, offrirono loro cibo guasto, guadagnandosi la loro riconoscenza.
Persino la musica e il cielo divennero infetti, pallide imitazioni dello splendore di un tempo.
Tuttavia i cittadini, un po’ per abitudine, un po’ per non pensare a quanto accadeva intorno a loro, continuarono ad organizzare feste: le fate non ci andavano più, ovviamente, ma loro danzavano. Molti erano smunti o ammalati a causa del cibo guasto, ma fingevano di star bene, per non ammettere che tutto era cambiato. Le reti dei pescatori risalivano cariche di veleni e sporcizie, i pomi nei giardini erano gonfi di malattia; le amene strade di un tempo erano invase dalla lordura che gli esseri maligni spargevano di soppiatto e l’aria era irrespirabile. Ma quando si guardava verso le isole bordate di foschia dorata, quando si aspirava il profumo dell’infuso per cui la città era celebre, la magia sembrava brillare intatta.
Ed è vero, all’inizio ci fu qualcuno che tentò di stanare coloro che distruggevano quel luogo invidiabile: tuttavia presto scomparve senza lasciar traccia, mentre gli stessi esseri oscuri fingevano di piangere la morte di coloro che avevano annientato. Gli abitanti convenivano che sì, forse qualcuno non si comportava proprio bene, qualcosa era forse cambiato, un po’, almeno. Ma con quel sole, benché opaco di fumi, con quel cielo, nonostante l’aria fetida, col sapore del caffè sulle labbra, beh… si poteva ancora dire che la città era uno dei posti più belli del mondo.
In quella che un tempo era la residenza delle fate e che per tutto il mondo era diventata un covo di mostri nacque un giorno una bambina. La bimba crebbe nella città malata senza ammalarsi, tra gente infetta e mostri senza farsi toccare dall’oscurità: forse perché era piccola, forse perché parlava poco, né i buoni né i cattivi si accorsero della sua presenza. Sebbene nessuno glielo insegnasse, imparò a ripulire dove vedeva la sporcizia, ad agire correttamente quando l’imbroglio sembrava la via più facile. Crebbe così simile ad una delle fate che abitavano nella città “di prima”, in quel tempo magico che non aveva mai avuto la fortuna di conoscere e di cui tutti parlavano con nostalgia, che quando parlava sembrava di sentire una musica di mandolini, e al suo passaggio l’aria aveva un leggero profumo di limoni.
E fu così che un giorno…”
Qui si interrompe il manoscritto. Non si sa se i fogli siano andati distrutti o se qualcuno abbia salvato il seguito della storia della bambina nata nella città dei mostri e delle fate. In ogni caso, la favola è incompiuta e ci spiace che resti così poco della magnifica biblioteca che esisteva un tempo.
Ci auguriamo tuttavia che un giorno –per la bambina, per la città e per la biblioteca- sia possibile immaginare un lieto fine.