Il motivo per cui scrivi e leggi è che ti fa sentire meno solo. Mentre leggo Cechov, vedo il mondo con i suoi occhi, anche se è morto. E magari penso: fa schifo, il mondo, ma non sono l’unico a pensarlo. Mentre scrivo, spero di lasciare qualcosa che dopo la mia morte parli ancora a persone che oggi non sono nemmeno nate. […] Questo fa un buon romanzo: ci mostra i molteplici risvolti senza fine per cui è interessante essere vivi, pur senza trovare mai la risposta definitiva.*
Jonathan Franzen è un uomo di poche parole (parlate). Lui, quello che pensa, preferisce raccontarlo nei suoi libri. Far parlare i suoi personaggi, meglio, le loro storie. Con frasi dirette, prive di fronzoli, di rimandi intellettualistici che pure caratterizzano lo stile di alcuni di quegli autori considerati (a buon diritto?) suoi naturali predecessori, Thomas Pynchon e Philip Roth, nonché del suo amico e collega il fu David Foster Wallace, Jonathan Franzen costruisce architetture impeccabili e lucide geometrie di pensiero da cui sorgono storie come altari, nitide, spesse, riconoscibili, con più carattere di molte persone in carne e ossa che purtroppo mi è capitato di incontrare.
54 anni oggi, ciuffo biondo spettinato sopra occhi chiari e penetranti nascosti dietro a lenti da nerd, Jonathan Franzen ha già avuto l’onore di figurare sulla copertina del Time del 23 Agosto 2010. Primo autore vivente ad essere incensato dal settimanale statunitense dieci anni dopo Stephen King, apparso in copertina nel 2000, Jonathan Franzen ha posato per Time con un’espressione corrucciata, quasi severa, che sebbene gli sia valsa numerose critiche – senza contare quelle provocate dalla ribellione ideologica di un manipolo di popolari scrittrici statunitensi (Jodi Picoult e Jennifer Weiner tra le altre) offese dalla scelta “troppo elitaria” di mettere in copertina un autore (maschio, bianco, di mezza età) di nicchia con numeri di vendite decisamente non commerciali – sembra calzargli addosso come un guanto. O meglio, calzare addosso ai suoi romanzi. E sembra quasi di vederlo, il corrucciato, serafico Jonathan, seduto davanti al monitor del suo computer (o forse alla macchina da scrivere, o, penna alla mano, chino su un foglio bianco?) mentre riempie pagine e pagine di quelle frasi brevi, punto/maiuscola, punto/maiuscola e pochi accapo, che messe insieme hanno costruito uno dei casi letterari degli ultimi anni.
Dopo “Le correzioni” e “Libertà” uscito nel 2010 con l’ampio corteo di polemiche che sempre caratterizza gli eventi molto attesi, il suo ultimo libro, Più lontano ancora, una raccolta di saggi su diversi temi, risale a circa un anno fa. Ma Franzen ha già in programma un nuovo romanzo. Che segnerà un ulteriore passo nell’evoluzione della carriera di uno scrittore che, con all’attivo 4 romanzi, due di formazione (La ventisettesima città, 1998, e Forte movimento, 1992) e due saghe familiari (Le correzioni, 2002 e Libertà, 2010) 2 volumi di saggistica (Come stare soli, 2002 e Più lontano ancora 2012) e un libro di memorie (Zona disagio, 2006), è già considerato un bestseller man.
Il perché, a dispetto di quanto sostenuto dalle di cui sopra incallite sostenitrici della letteratura al femminile (che non necessariamente è “rosa”) è presto detto. Franzen piace perché è in grado di raccontare storie che parlano da sé, che mostrano al lettore un mondo, una società, un’identità, quella middle class statunitense che si avvia lentamente al declino, in cui riconoscersi. Un’umanità disumana per quanto è vera, quotidiana e semplice, tratteggiata con il rigore letterario dei grandi, sguardo acuto e lingua asciutta, che sa far ridere con ironia sottile e sa far piangere amare lacrime di rammarico (verso se stessi). Siamo tutti personaggi di Jonathan Franzen: ma nessuno di noi avrebbe sperato che la propria vita fosse raccontata con tale pienezza di stile e di significati.
Franzen racconta verità che accecano tanto sono chiare, tratteggia personaggi verosimili tanto da sembrare che stiano lì lì per saltar fuori dalla pagina, tridimensionali al punto da sembrare irreali, eppure drammaticamente fedeli alla realtà. Una realtà a cui Franzen guarda con disincanto e meraviglia, ma soprattutto con la voglia di ricrearla, attraverso i suoi libri, unico artefice dei suoi mondi che sono innanzitutto una via di fuga dalla realtà. Mondi paralleli, in cui ritinteggiare le pareti del vero, concedendosi però ampi spazi per proiettare se stessi. Nel tentativo, ormai quasi sovrumano, di rimanere “umano”.
[…] le proiezioni della gente sui personaggi noti sono solo questo: proiezioni. Io ambisco a restare un essere umano, che magari lascerà qualcosa di interessante stampato su una pagina.*
*Da un’intervista rilasciata a La Stampa, ottobre 2012, in occasione dell’uscita del suo ultimo libro, la raccolta di saggi “Più lontano ancora”.