tra la seconda e le ultime due volte che lo vidi, cominciai a passare del tempo con un capitano dei carabinieri, bello come il sole, atletico e allegro come un’allodola.
mi aveva fermato per strada, e dopo 20 minuti mi aveva invitato a cena. a cena: che cosa azzeccata, in quel momento. non ci fu modo di dire di no, la vita mi bussava alla porta.
la sua divisa mi dava fastidio, certo. era molto meglio nudo. nudo mi cullava, mi proteggeva. nudo era più armato che vestito. se fosse andato in giro sempre nudo l’avrei sposato un paio di volte. lo avrei voluto sempre così, senza nemmeno il mondo attorno. ma era un desiderio irrealizzabile, e mi feci coraggio. gli stavo dietro come potevo, amavo il fatto che mi facesse sentire normale. faceva l’amore come un altro mangia o dorme o cammina. semplicemente. naturalmente.
detestava la mia musica. detestavo la sua tv.
avevo sempre fame, certo. e non mi addormentavo mai dopo aver fatto l’amore. ma ormai ci avevo fatto l’abitudine.
e non cercavo più di combattere ciò che ero. semplicemente vivevo.
divisi il mio letto col carabiniere. poi gli aprii le altre stanze della mia casa. diamine, se non ci si può fidare di un militare…finii per condividere con lui perfino la cucina.
cominciò a chiedermi di cucinargli certi piatti che gli piacevano. e mi ritrovai davanti ai fornelli insieme a lui, che mi passava gli ingredienti. era la prima volta.
mi parve una rivoluzione. mi presentò sua madre, andammo a portare dei fiori sulla tomba di suo padre. uscivamo, preparavamo da mangiare, facevamo l’amore e tutte quelle cose che io avevo sempre fatto da sola, o a rate, o un uomo alla volta.
cucinammo insieme il riso al curry, comprammo prosciutto di cervo, brindammo con bicchieri di nero d’avola, una volta una crostata ci venne molto brutta, ma particolarmente buona.
percepivo lo stesso vuoto nello stomaco che avevo sentito per tutta la mia vita, ma a lui sembrava non importare, e dopo un po’ non importò neanche me. non mi scrutava, non mi aspettava, non mi contava i grissini nel cestino.
non sapeva il motivo per cui avevo così tanta fame, ma lo accettava e restava con me, lasciandomi lo spazio per le mie scorribande notturne nel frigorifero, in solitaria.
non mi chiedeva di dormirgli accanto.
era dolce come la frutta. dolce e fresco e sano. anche troppo.
andava avanti e io accanto a lui vivevo la mia vita. e se la frutta finiva, lui la ricomprava.
non mi entrava abbastanza dentro per farmi del male. non restava abbastanza fuori per essere un estraneo. avevamo trovato un equilibrio. non mi facevo domande.
finché partì per una di quelle missioni umanitarie che umanitarie non sono. e cominciò a fare avanti e indietro dall’inferno.
perdemmo il nostro tempo per cucinare. iniziammo a mangiare sempre più spesso cibi confezionati, surgelati, precotti.
sottilette, bastoncini, quattro salti, zuppe.
roba che non fa passare mai la fame.
la missione umanitaria gli tolse un po’ di umanità.
ma non posso dimenticare tutto quello che mi ha regalato. è gratitudine. e cos’è l’amore se non la gratitudine per aver ricevuto qualcosa che non ci appartiene?