Erano anime che non si potevano redimere e se il carcere era una soluzione goffa e crudele, era comunque una misura del mistero della loro caduta.
John Cheever ha una scrittura liquida, come se le parole ti cadessero addosso mentre leggi e scivolassero gocciolando sopra e attraverso la lettura. È un romanzo non facile, Falconer, sia perché il tema è già di per se stesso intricato, sia perché il modo in cui l’autore ne parla costringe a considerarne aspetti non usuali e imprevedibili, sfidando la coscienza del lettore.
Il tema è il carcere, e la vita in carcere. Farragaut viene condannato per aver ucciso suo fratello, ma solo alla fine del romanzo sarà rivelato l’andamento dell’assassinio e le motivazioni che vi sono dietro. Per il resto del libro, si assiste ad una descrizione del carcere e della vita che si conduce all’interno di esso che riesce ad essere, allo stesso tempo, crudele e commovente. L’autore non si preoccupa in alcun modo di urtare la sensibilità di chi lo sta leggendo, anzi sembra volerne mettere alla prova la resistenza. Non nascondo che talvolta la crudeltà di cui Cheever dà mostra mi è sembrata più che gratuita, purtroppo.
Gli aspetti più toccanti, invece, sono la persistente solitudine dei carcerati, in particolare di quelli che non hanno nessuno ad aspettarli al di fuori, e la loro lotta quotidiana per mantenere una parvenza di normalità. Tra le sbarre questi uomini si aggrappano alla vita guardando la tv, giocando a carte, ascoltando la radio, legandosi tra loro in relazioni stanche e disperate (lo stesso protagonista crederà di essersi innamorato di un altro detenuto). Si instaurano strane amicizie persino tra i carcerati e i secondini, che talvolta li aiutano e dimostrano in rari casi un’umanità sfibrante per la sua semplicità e immediatezza.
La vicenda di Farragaut è intrecciata alle storie che i suoi compagni gli raccontano: sono storie di vite disperate condotte senza speranza, di tentativi di trovarsi un posto nel mondo finiti male. Se pur colpevoli, questi uomini fanno pena, inteneriscono, turbano. Spesso persino le loro colpe, quando e se sono rivelate, sono dette come qualcosa di futile, come se l’essere rinchiusi in prigione avesse ragioni più profonde del delitto che hanno commesso.
Questo romanzo offre uno sguardo disincantato, realistico ma umano su un mondo di cui, oggi, si stenta a parlare. Dà voce ai più reclusi della società, e fa vedere che sono tutti esseri umani. Costringe ad un’immedesimazione impietosita che lascia qualcosa su cui riflettere anche dopo aver concluso la lettura del romanzo.