La prima pagina di “Chi ti credi di essere?” (libro del 1978 già edito da E/O negli anni Novanta ed ora pubblicato da Einaudi) presenta una bambina di nome Rose, sognatrice, maldestra e pronta a lasciarsi alle spalle il mondo provinciale nel quale era nata. Durante una discussione con Flo, la matrigna, Rose viene meno a quei precetti tanto cari a Flo. La sua sbadataggine e la sua fervida immaginazione vengono scambiate per un atteggiamento oltraggioso. Flo non ci sta e le promette “botte da re”, quelle del padre, non le sue. “Flo non sarebbe mai arrivata a tanto”. Lei picchiava con le parole, scarnificando l’autostima di Rose, rendendola ridicola agli occhi di tutti. E perché mai avrebbe dovuto stimarla? Chi si credeva di essere, Rose?
L’intero capitolo si regge su questa domanda, ma potrei dire l’intero romanzo. Ma a questo punto mi chiedo se davanti ho un romanzo o una raccolta di racconti. Presi singolarmente, i capitoli, potrebbero sostenersi l’un l’altro senza essere con ciò legati da alcunché di associativo, eccezion fatta per i nomi dei personaggi che si rincorrono di pagina in pagina. La struttura narrativa di Alice Munro poggia su pilastri ben saldi, si muove in uno spazio (Hanratty, Ontario) e in un tempo (i primi quarant’anni della vita di Rose) definiti. All’interno di questa costruzione geometrica i ricordi, le allusioni, i pensieri si stagliano su un sottobosco narrativo che prevede un lungo lavoro linguistico e lettarario.
Abbandonando le attribuzioni da letteratura femminile di cui le opere della Munro hanno sofferto per una decina di anni, almeno qui in Italia, “Chi ti credi di essere?” è un romanzo/raccolta di racconti elaborato su personaggi forti e competitivi, delineati in maniera quasi ossesiva tanto che si avverte la presenza di Rose, Flo, del padre e degli amanti di Rose anche attorno a noi, indipendemente dal luogo in cui si siamo rifugiati per la lettura. E Rose, inadeguata e olimpica, maldestra e determinata, sospettosa soprattutto di se stessa, della persona che diventerà da grande, si impone in un romanzo che precede di molto opere di grande successo come “Nemico, amico e amante” (per fare un esempio) in cui il gioco di rimandi spazio-temporali viaggiano sui binari di una lingua ricca, complessa e densa di particolari. Il dettaglio verso il personaggio, verso la scena, le inqudrature, i passaggi da una stanza all’altra, da un luogo all’altro sono ravvisabili anche in questo romanzo ma risultano ancora acerbi.
Rose cresce, s’innamora di Patrick, supponente giovanotto dell’alta borghesia, resta incinta, scopre che l’amore è più fragile di quanto avesse potuto immaginare, tradisce Patrick (ma la prima a tradire è se stessa), si separa, trova un impiego come insegnante. Cerca di fare la moglie, cerca di fare l’insegnante, prova a realizzarsi come attrice e conduttrice televisiva, cerca di fare l’amante. Si sente sempre fuori posto e ogni volta che non ce la fa, che cade, prima di rialzarsi pensa sempre che in fondo non si merita molto. In fondo chi si crede di essere, Rose, per meritarsi qualcosa?