nel frattempo il mio lavoro aveva preso una buona piega. guadagnavo bene. alcuni addetti ai lavori sapevano chi ero. un uomo non mi serviva.
lui mi trovò attraverso canali ufficiali. mi scrisse una lettera su un sito internet con cui collaboravo. non si firmò, non ce n’era bisogno: in ciascuno di quei caratteri courier new, corpo 12, sentivo l’eco di quel difetto di pronuncia, rivedevo la sua città, i bachi da seta.
non decisi coscientemente di rispondere, furono le mie mani, da sole.
scrissero per giorni. per settimane. per mesi. parlarono per me, senza nascondere niente.
e senza nascondere niente mi rispondeva. io leggevo, scorrevo le sue righe con la stessa emozione con cui si guarda la propria foto di un tempo lontano ed amato.
internet era arrivato a salvarci la vita.
una nostalgia antica, come di qualcosa che non hai mai avuto, si fece troppo forte.
mi venne fuori un desiderio vecchio come la vita. la curiosità di sfidare la paura.
ero certa di vincere e di uscirne indenne.
le mie dita presero un appuntamento per me.
in tre anni, ci siamo visti in tutto quattro volte.
la prima volta ci riconoscemmo e basta. eravamo alla stazione e i treni sullo sfondo mi aiutarono a ricordare che dovevo ripartire, perché il suono di quella voce e l’immagine del suo dente spezzato mi avevano fatto dimenticare di nuovo chi ero e perché mi trovavo lì.
la seconda volta fu ad una mostra. di nuovo. ma stavolta ne sapevo più di lui. ero felice, e non era una questione di orgoglio. ero felice e basta. a fine giornata gli stavo dando la mano, e ci misi un’ora a farmela ridare. mi accorsi solo dopo che avevamo saltato l’ora del pranzo.
lo salutai con un bacio sulle labbra, certa che non l’avrei rivisto mai più.