(Foto © uomoconbarba.wordpress.com)
Io, ad esempio, ne avevo più d’uno. Quello “scolastico” me lo rifilarono i due compagni del banco dietro al mio: Prez, perché conoscevo tutti, ero dappertutto, mi infilavo ovunque, e soprattutto avevo una orrenda giacca a vento verde.
Fuori dalla scuola, però, per la ganga di amici ero Muflo: i capelli lunghi e ricci mi condannavano ad affinità ovine; fondamentalmente mi ha sempre fatto ridere, per fortuna: perché faceva ridere tutti, e se me la fossi presa ora non suonerei in un complesso, ma ne avrei parecchi, di complessi.
Nessuno è immune alla legge del soprannome. Non c’è pubertà o adolescenza che possa dirsi compiuta senza che il tuo nome finisca nel tritatutto fonetico dei tuoi amici bastardi. Puoi chiamarti in qualsiasi modo, anche Ugo, Eva, Fi, Gnh, Lu; potrai dimostrarti assente, discreto, minimo indispensabile: qualcosa riusciranno ad appiopparti, e ti troverai addosso un agglomerato di sillabe spremute dal tuo nome, dalla tua personalità, da un episodio che ti ha visto coinvolto.
Lui partiva da un nome di plastilina, quindi dopo innumerevoli tentativi di rielaborazione, per qualche scherzo del destino vinse il soprannome più cacofonico del mazzo: da Leonardo arrivammo a Leoncio. Non volevamo farci mancare niente, nemmeno lo sforzo di stringere labbra e guance.
Dalla squadra di pallacanestro dei ragazzini all’oratorio, passando per il liceo e per il casting da nerd davanti a un tavolo da giochi di ruolo, con in mezzo torride estati da vicini di casa a Lignano Pineta, abbiamo attraversato limitrofi la rete di piccole strade provinciali della vita. Il delirio di zig-zag e tunnel umani, sentimentali, fisici, emotivi che allo svincolo finale ti aprono la città della tua esistenza: quella in cui metterà radici definitive l’insieme di pelle, ossa e comportamenti che sei diventato.
Entravamo e uscivamo dalle gallerie ognuno per conto suo, per poi ritrovarci regolarmente all’uscita carichi di entusiasmo e cretineria adolescenziale. Non siamo mai stati in classe assieme, io e Leoncio: condividevamo solo (solo?) pomeriggi feriali e giornate festive con in mano un pallone da basket, o la racchetta da ping pong, o la chitarra sotto l’ascella. La chitarra: ce l’avevamo uguale, gliel’avevo fatta comprare identica perché voleva imparare. La mia è ancora lì, con gli stessi adesivi che la ricoprono da quegli anni, malconcia al mio posto come un Dorian Gray a sei corde.
Messi insieme facevamo probabilmente cento chili in due: eppure i braccini di Leoncio si agitavano entusiasti, anche con 40° alle quattro di pomeriggio di un 13 agosto, per convincerci ad accompagnarlo a prendere un trancio di pizza.
Quei braccini fecero con il pallone due cose che per noi ragazzini erano degne di entrare nel Mito, nella Leggenda, nell’Ultraterreno: un canestro da dietro al tabellone, in partita ufficiale – e parliamo di tredicenni contro tredicenni, non di Gallinari o Meneghin. E soprattutto non sbagliavano un colpo nella nostra Sfida con la esse maiuscola: far canestro in cortile, da una ventina di metri, saltando giù da una panchina. Dovevi infilare l’anello e la retina senza aiuto del tabellone, perché eri inesorabilmente di taglio, e possibilmente cadere in piedi, va’, che alle ginocchia e ai denti ci tenevamo tutti.
I braccini di Leoncio, in quella decina d’anni, hanno devastato ogni cosa. Erano un’arma impropria. Una mia ricerca sull’ex-Jugoslavia, alle scuole medie, venne innaffiata da un succo di frutta che improvvidamente mia mamma gli offrì in zona tavolo, per dire.
E gli “Scambi culturali”, come li avevamo chiamati, riempivano torridi dopopranzo estivi: andavo a trovarlo con il mio pacco di dischi preferito, tutta roba tra i ’60 e i ‘70, lui era già pronto davanti allo stereo portatile e la colonnina di cd degli U2. Il tentativo era di farci apprezzare reciprocamente i suoni che normalmente non avremmo mai voluto affrontare. Perché si sa: un adolescente è una specie di ultras, un guerriero devoto alla propria bandiera. Ama visceralmente i suoi eroi, detestando con tutta l’anima il resto. Nel suo appartamento di Lignano tentavamo di superare questa dicotomia, diventando un po’ più adulti – almeno con le orecchie.
E insomma, poi arrivò il diploma. L’università. Il lavoro, chiaramente a chilometri dalle vite altrui. Continuavamo a entrare e uscire dai tunnel delle provinciali, solo che quello finale era particolarmente lungo. Il suo troppo.
Era il giorno del mio compleanno quando un amico comune mi telefonò, e non era per festeggiare insieme.
Ora, quando penso a lui, credo che le gallerie sono fatte per raccordare due luoghi, due momenti, e non per tenertici stretto dentro. Ma quando racconto quello che abbiamo fatto insieme, ogni momento vissuto in compagnia costruendoci il pianeta adolescenziale perfetto, beh, rido. Faccio fatica a parlare al passato. Torno lì, spazio e tempo, e lui con me. E cazzo, rido: perché Leoncio se lo merita.
Scrivere, ecco, scrivere non sapevo ancora che effetto facesse. Volevo provarci.