È ben noto come gli antichi Romani siano stati in grado di raggiungere vette altissime in numerosi campi dello scibile umano. Una civiltà dai poliedrici interessi, capace di spaziare da un’arte ad un’altra con disinvoltura e risultati eccellenti.
Anche la geografia è stata oggetto di interesse da parte di storici e scienziati romani. Spesso posta in secondo piano rispetto ad altre branche della scienza, essa risponde da sempre ad un bisogno essenziale dell’essere umano di ogni tempo: conoscere lo spazio che ci circonda, delimitarlo, esplorarlo e descriverlo.
Nel corso del primo secolo dell’era cristiana, poi, questo bisogno si avverte sempre di più. L’espansione dell’impero aveva richiesto un miglioramento del sistema viario, e – insieme alle strade – proliferavano tutte quelle attrezzature necessarie ad un viaggio, come le stazioni di posta, di pernottamento e di assistenza. Lo spostamento per motivi militari, commerciali o amministrativi diventa sempre più frequente, e quindi indispensabile diviene la realizzazione di carte geografiche attendibili, utili per la conoscenza dei luoghi e per il calcolo delle distanze percorribili. È questo il contesto nel quale si inscrive l’opera di Pomponio Mela, originario della Spagna Betica, precisamente di Tingèntera, località non lontana da Gibilterra. Ed è lui l’autore di un trattato di geografia, che vanta il non trascurabile primato di essere il più antico nella letteratura latina (che, naturalmente, ci sia pervenuto): la Chorographia – termine greco che significa letteralmente “descrizione dei luoghi” – altrimenti nota con il titolo latino De situ orbis.
Pomponio Mela non è stato certo il primo scrittore dell’antichità a mostrare interesse nei confronti della geografia. Il greco Strabone, a cavallo tra I secolo a.C. e I secolo d.C. (quindi sostanzialmente in contemporanea con il nostro), componeva un’opera nella quale si descrivevano tutte le province dell’impero. Anche Varrone si era dedicato a studi di carattere geografico, e siamo a conoscenza della stesura di due opere purtroppo non pervenuteci. Interessi di tal genere sarebbero poi stati coltivati anche da Plinio il Vecchio, che vi avrebbe dedicato diversi capitoli nella sua opera enciclopedica, la Naturalis historia.
L’opera è divisa in tre libri. Dopo un’introduzione nella quale l’autore dichiara tra l’altro il suo proposito di volersi prossimamente dedicare alla stesura di un’opera più vasta (della quale però nulla sappiamo), comincia la trattazione vera e propria. Il modello seguito è quello del periplo, ossia la descrizione delle coste dei luoghi toccati durante la navigazione, di derivazione ellenistica. Nel primo libro il viaggio parte dalle Colonne d’Ercole (luogo vicino alla terra natìa dello scrittore e insieme confine del mondo allora conosciuto) e prosegue in Africa settentrionale e Asia Minore; il secondo libro è dedicato alla descrizione dei paesi mediterranei (Grecia, Italia, Gallia, Spagna); nel terzo, il tragitto segue le coste oceaniche di Spagna, Gallia e Germania, fino ad arrivare alle isole britanniche ed ancora a luoghi africani ed asiatici non descritti nel primo libro.
Gli scopi dell’opera non sono certo scientifici: essa è di fatto concepita per una fruizione da parte del grande pubblico, ed è per questo che non mancano narrazioni esotiche e straordinarie di popoli lontani, così come numerose risultano le digressioni di carattere etnografico, storico e letterario. Il tutto, però, è condito da uno stile elaborato e retoricamente elevato, non privo di arcaismi e poetismi, che sembra richiamarsi soprattutto al canone sallustiano della brevitas.