Ciao Samuel, sono la mamma.
Quando vedrai questo filmato sarai già grande e forse farai un po’ fatica a riconoscere me e papà, che ci siamo vestiti eleganti solo per farci ricordare nella miglior forma possibile.
Questo divano su cui siamo seduti si trova nel salone, ma molto probabilmente non lo avremo più. Sai, abbiamo tanti progetti da portare avanti. Io e papà vorremmo cambiare casa, pitturare la camera da letto di azzurro e aprire insieme una nuova attività. Una libreria. Già mi vedo lui con i capelli tutti arruffati che dà uno sguardo al catalogo per vedere se ci sono i libri ordinati dai clienti, ed io che invece sorridente impilo nelle giuste mensole i nuovi arrivi.
Tu però sei il nostro progetto più bello, perché ti abbiamo voluto e ti stiamo aspettando. Tu sei qui dentro, proprio dove indica il mio dito. E sono sicuro che sarai bellissimo, che avrai il naso del tuo papà e magari le mie orecchie, o gli occhi, o il neo sul braccio sinistro.
Io e papà ci siamo conosciuti all’università. Lui stava sempre in prima fila, non si perdeva mai una lezione di Bioetica. Io invece arrivavo sempre in ritardo e se ero fortunata riuscivo a sedermi sugli scalini dell’aula a prendere affannosamente gli appunti.
Un giorno in cui fuori pioveva fortissimo, sono entrata in aula bagnata fradicia. Avevo i capelli che sembravano castano scuro talmente erano bagnati, per non parlare della mia borsa e del mio blocco appunti. Lui mi ha vista arrivare con l’affanno, entrare in aula con gli occhi persi e preoccupati. Mi ha sorriso, poi s’è alzato e mi ha ceduto il posto: “Questa volta mi siedo io sugli scalini. E per gli appunti non ti preoccupare, ti do i miei”.
Da allora abbiamo cominciato a sederci sempre vicini. E a seguire tutti i corsi insieme.
Ci siamo fidanzati per sei lunghi e intensi anni.
Poi è entrato nella mia vita un altro uomo, e questo tuo papà lo sa. Io allora sentivo sulle spalle il peso enorme della nostra storia. Le responsabilità che arrivavano, la laurea che si avvicinava a rilento, i miei genitori che facevano pressione, che parlavano di matrimonio… E così una sera ho ceduto alle lusinghe di questo uomo, un architetto. E abbiamo passato una notte insieme, e anche quella dopo.
Sono sicuro che quando mi guarderai sarai abbastanza grande da capire che io ero una codarda, e magari mi perdonerai.
Quell’uomo non mi faceva mancare niente, Samuel. Niente. Avevamo una camera da letto bellissima, ovunque andassi in giro per casa sentivo odore di incensi e deodoranti alla vaniglia. Una automobile da favola che correva velocissima, una casa al mare da fare invidia a chiunque.
Se la tua passione sarà la lettura o il cinema forse troverai queste parole banali, ma credimi, amore mio: sentivo un vuoto nel cuore. Quell’uomo mi piaceva, ma non riuscivo a sentirmi sua. Non riuscivo ad appartenergli quando mi accarezzava una guancia o quando mi faceva le improvvisate al corso di yoga per portarmi a mangiare la pizza e poi un frappè. Era romantico, passionale, era bellissimo…ma non lo amavo.
Ho incontrato di nuovo tuo padre mentre camminavo per strada. Era di sera, mi trovavo in centro. Pioveva e le macchine che passavano per la strada rilasciavano nell’aria un suono lento, come soffocato. Immagina quanto fosse forte, quanto cadesse fitta, quella pioggia… Non riuscivo a distinguere i suoni e i colori, perché avevo i capelli così bagnati che l’acqua mi scivolava sugli occhi. Sono entrata in una caffetteria rimasta ancora aperta perché avevo dimenticato le chiavi di casa in macchina, e l’auto l’aveva lui, Lorenzo, che era uscito per andare a giocare una partita di calcetto.
Entrare in quel posto è stato come entrare anni fa nell’aula universitaria. Il mio cuore lo sentiva, che c’era tuo padre là dentro. Non chiedermi come ma lo sentiva.
Imparerai forse un giorno che anche il corpo ti parla, e che a volte sa più cose lui che il tuo cuore… I miei piedi avanzavano nell’atrio luminoso e profumato di caffè, ma io non sapevo dove mi stessi dirigendo. Li seguivo come una marionetta.
L’ho visto seduto in un angolo, con un bel taccuino rilegato in pelle poggiato sul tavolino, una penna stilografica molto vecchia in mano e una cioccolata calda che fumava ancora. Ci siamo guardati e ci siamo sorrisi. Ci siamo sorrisi per tutta la sera. Non una parola, non una carezza. Eravamo come due estranei che non si rivolgevano la parola, ma io dell’uomo che avevo davanti conoscevo tutto.
Ricordavo la sua pelle con qualche accenno di brufoli ora scomparsi; adesso aveva un pizzetto che lo rendeva molto affascinante. Le sue mani non erano cambiate, ma sembravano più forte, più vive. E le sopracciglia, il mondo in cui le inarcava e poi le aggrottava, sembrava giocasse con quei semicerchi perfetti.
Abbiamo recuperato tutto il tempo perduto senza dirci una parola, siamo usciti da quel bar fino a quando non s’è fatta l’ora di chiusura.
Quella notte, quando tornai a casa, feci in silenzio la valigia, presi con me i documenti, un libro e lasciai sul tavolino del salotto le chiavi di casa. Mi chiusi la porta alle spalle con la sagoma di un uomo che non avevo mai amato che russava rumorosamente sul divano, le pantofole e la coperta a terra. Quella è stata l’ultima cosa che ho visto prima di uscire da quella casa, senza più farvi ritorno.
Quello che successe da quel momento in poi è un altra storia, amore. Ho voluto raccontartela perché oggi io e tuo padre compiamo quindici anni di matrimonio, e tu, anche se ancora non possiamo accarezzarti e coccolarti come vorremmo, sei il miglior regalo che entrambi potessimo farci a vicenda.
Non vedo l’ora di vederti.
Adesso ti saluto, lascio parlare papà perché anche lui ha tante cose da dirti.
Un saluto e un abbraccio dalla mamma più felice del mondo.