“Se io potessi, per una attenzione del Padreterno, scegliere un momento nella storia e un mestiere, sceglierei questo tempo e il mestiere di pittore.” R. Guttuso
Roma, 1937. È l’anno che segna un passaggio fondamentale nella vita di Renato Guttuso. Lasciandosi alle spalle le esperienze giovanili (dalla ricerca naturalista-verista a quella futurista dei primi anni, a vantaggio di una materia pittorica vibrante e di forti contrasti), è alla ricerca di una nuova poetica, una “poetica realistica” o “poetica della naturalezza”: “Esiste infatti un mondo della poesia che è immutabile perché è il mondo immutabile dell’uomo e al di fuori del quale nulla più esiste: il rapporto tra l’uomo e la sua società, tra l’uomo e la donna, l’uomo e gli elementi, la natura e il destino.” (R. Guttuso, “Arte dei giovani”, L’appello, 1937)
Così come aveva fatto nel 1935 a Milano dove, svolgendo il servizio militare, strinse solide amicizie con artisti come Giacomo Manzù (che gli dedicherà il monumento funebre), Lucio Fontana (con cui divise lo studio), poeti come Salvatore Quasimodo, Elio Vittorini, il filosofo Antonio Banfi, il gobettiano Edoardo Persico, amicizie fondamentali nella condivisione dell’esperienza di Corrente, movimento artistico-culturale e rivista letteraria, diretta da Ernesto Treccani, che diventerà organo milanese-fiorentino d’opposizione antifascista, specie dal 1939 con l’editoriale Continuità, dove si concepisce l’attività artistica “come impegno umano nella storia e possibilità d’intervento sul reale”, a Roma Guttuso, alla ricerca di questa nuova poetica, farà dei suoi studi, primo fra tutti quello in piazza Melozzo da Forlì, non solo luoghi di ritrovo e di ospitalità per amici, artisti ed intellettuali dove, condividendo interessi e speranze, ci si confronta sull’arte e sulla politica, dipingendo, dibattendo e dividendo le poche entrate economiche a disposizione, ma anche luoghi dove trasformare questa ricerca in adesione, in prima persona, ai movimenti al centro dell’innovazione artistico-culturale e alla chiara presa di posizione politica, iscrivendosi al Partito Comunista nel 1940, stimolato dalle forti amicizie nate con Alberto Moravia, i critici e politici Antonello Trombadori e Mario Alicata, per partecipare attivamente alla lotta partigiana.
Sono gli anni degli intensi ritratti (Alberto Moravia) ed autoritratti, delle nature morte, ma soprattutto di Fucilazione in campagna (1938), primo quadro civile, che rimanda al famoso Los Fusilamientos del tres de majo di Francisco Goya, dedicato a Federico Garcia Lorca, fucilato dai franchisti nel 1936 e di Fuga dall’Etna (1939), vincitore del premio Bergamo (il più importante nel campo pittorico in quegli anni), il primo quadro di grande formato nel quale Guttuso offre una chiara immagine dello sfruttamento dei contadini del sud, pienamente inserito nella poetica neorelista di quegli anni. Anni prolifici in cui, pur mantenendo i contatti mai interrotti con l’ambiente artistico e letterario siciliano (Leonardo Sciascia), milanese, fiorentino (Eugenio Montale, Mario Luzi), è pienamente inserito nel dibattito romano collaborando come critico a Le Arti, Primato e Il Selvaggio, rivista quest’utima, che dopo un inizio filofascista, nel 1926 prende le distanze dalla politica, sotto la direzione di Mino Maccari, giornalista ed incisore, che con un articolo ne annuncia il cambiamento di rotta e la presenta come rivista letteraria e d’arte, cercando di preservarne l’autonomia e il diritto di critica, anche politica, tralasciando “artisti di stato” (Filippo Tommaso Marinetti) a vantaggio di artisti liberi, a partire dallo stesso Guttuso, Giorgio Morandi nel campo della pittura e Mario Tobino, Elsa Morante e molti altri nel campo letterario.
Inoltre, nella villa di Metelliano dell’amico conte Umberto Morra di Lavriano, esponente del movimento liberale ritiratosi in isolamento durante il fascismo, Guttuso entra in contatto con illustri ospiti del calibro di Norberto Bobbio e Gaetano Salvemini, che in quegli anni sollevano le nuove questioni politiche, sociali e morali, contribuendo a quella sensibilità sociale che si va consolidando nell’animo del pittore.
La città di Roma, recentemente (fino al 10 febbraio 2013) ha celebrato i cento anni dalla nascita dell’artista siciliano al Complesso del Vittoriano con la mostra “Guttuso. 1912-2012”, non solo un percorso esauriente nell’intera opera dell’artista ma un’occasione di analisi sulle commistioni artistico-letterarie-culturali di una fase fondamentale della storia italiana.
La Resistenza rappresenta un momento di grande unità per gli intellettuali italiani e chiede all’arte di essere corale e sociale, neorealista ed epica: dalla cronaca della lotta partigiana (le lettere), al racconto, al romanzo, al cinema, mettendo all’ordine del giorno, nell’immediato dopoguerra, la necessità di ripensare al ruolo dell’intellettuale, in un rapporto diretto col popolo, non dimenticando il contatto con le correnti culturali e le avanguardie internazionali, come cercò di fare Elio Vittorini con Il Politecnico e lo stesso Guttuso aderendo nel 1946 al Fronte Nuovo delle Arti, movimento che seppe riunire sotto l’insegna dell’impegno sociale artisti dalle scelte stilistiche più disparate (Renato Birolli, Emilio Vedova).
Guttuso, coniugando “pittura sociale” e “cultura dell’impegno”, contribuì allo spostamento dell’asse artistico dal postimpressionismo ad un realismo esistenziale, attraverso le grandi opere che hanno segnato tappe fondamentali nell’arte e nella cultura italiana: da Crocifissione (1940-1941), che suscitò scandalo e fu condannata dal Vaticano, rappresentativa di quella esigenza, “quasi sete violenta di bruciare le posizioni di sentimento, o, se non di abbandonarle, di approfondirle, di trasformarle, attraverso la conoscenza di fatti, libri, opere che potessero parlarci, per analogia, di quello che noi stavamo vivendo.” (R. Guttuso, “La Crocifissione al Premio Bergamo”, Il Contemporaneo, 1965) a I Funerali di Togliatti (1972), la cui elaborazione fu meditata a lungo fin dal 1964 e che sembra associabile più di altre opere a queste sue parole: “il valore di un’opera d’arte sta nella sua espressività (…).Solo quando non esprime è cronaca, decorazione, illustrazione. Perché un’opera viva, bisogna che l’uomo che la produce sia in collera ed esprima la sua collera nel modo che più si confà a quell’uomo. Un’opera d’arte è sempre la somma dei piaceri e dei dolori dell’uomo che l’ha creata. Intendo dire che non è necessario per un pittore essere d’un partito o d’un altro, o fare una guerra, o fare una rivoluzione, ma è necessario che egli agisca, nel dipingere come agisce chi fa una guerra o una rivoluzione. Come chi muore, insomma, per qualche cosa. (R. Guttuso, “Pensieri sulla pittura”, Primato, 1941)
E questo vale, evidentemente, per ogni forma d’arte, dalla pittura alla letteratura.