«Gli uomini che hanno una tempestosa vita interiore e non cercano sfogo o nei discorsi o nella scrittura, sono semplicemente uomini che non hanno una tempestosa vita interiore.»
Cesare Pavese nacque a Santo Stefano Belbo il 9 settembre 1908; era figlio di Eugenio Pavese, cancelliere presso il tribunale di Torino, e di Consulina Mesturini, proveniente da una famiglia di commercianti. Nonostante la relativa agiatezza economica della famiglia, il piccolo Cesare non ebbe un’infanzia felice: infatti, dopo la morte del padre, la sua educazione fu affidata alla madre, donna severa ed autoritaria. È quindi evidente come la difficile situazione familiare contribuì ad accentuare la fragilità psicologica dello scrittore e il suo carattere introverso. Terminate le elementari a Torino, Pavese frequentò le medie in un istituto della ricca borghesia, benché l’avversione per l’ambiente cittadino gli facesse vagheggiare la campagna natia come luogo di rifugio ed evasione.
Durante gli anni trascorsi al liceo D’Azeglio, lo scrittore sviluppò un forte interesse per la letteratura americana da cui ebbe lo spunto per la tesi dal titolo Interpretazione di Walt Whitman scrittore. In seguito cominciò l’attività di traduttore che affiancò all’insegnamento della lingua inglese; inoltre, dal 1934 diresse la rivista “La Cultura”, collaborando con l’Einaudi. Quando nel 1935 Pavese fu trovato in possesso di alcune lettere compromettenti venne immediatamente accusato di antifascismo e fu condannato a tre anni di confino a Brancaleone Calabro. Da quest’esperienza nacque un diario, in seguito intitolato Il mestiere di vivere, in cui l’autore esprime un totale senso di oppressione e di soffocamento per quel genere di vita.
Dopo aver ottenuto una riduzione della pena, Pavese tornò a Torino nel 1936 e dovette affrontare l’ insuccesso della raccolta di poesie Lavorare stanca; decise quindi di dedicarsi all’attività di traduttore, collaborando stabilmente con l’ Einaudi. In questo periodo compì il passaggio dalla poesia alla prosa, scrivendo la maggior parte dei racconti, come Notte di festa (1939), e pubblicando i “romanzi brevi”: Il carcere (1938-1939), La bella estate (1940) e La spiaggia (1940). Con Paesi tuoi (1941), il talento letterario di Pavese venne finalmente portato alla ribalta, benché non mancassero le critiche. Quando Torino venne occupata dopo l’armistizio dell’8 settembre, lo scrittore si rifugiò nel Monferrato, non avendo il coraggio di prendere parte alla guerra partigiana; in questo periodo di isolamento il forte senso di colpa e di inadeguatezza lo portarono a maturare riflessioni sul valore del mito e della classicità come luoghi di ristoro dal disagio esistenziale.
Nel dopoguerra l’autore fece ritorno a Torino e aderì al Partito Comunista, scrivendo per l’ Unità i Dialoghi col compagno. Successivamente cominciò la composizione dei Dialoghi con Leucò e del romanzo politico Il compagno; ideò anche la collana “Collezione di studi religiosi, etnologici e psicologici”. L’ennesima delusione d’amore lo portò a scrivere la raccolta di versi Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, a cui seguì la pubblicazione di numerose opere, come Feria d’agosto (1946), Prima che il gallo canti (1949), Il diavolo sulle colline (1948) e La luna e i falò (1950). Nel giungo del 1950 per La bella estate ottenne il Premio Strega; tuttavia, il persistere della depressione lo condusse al suicidio il 27 agosto di quello stesso anno.
Appare evidente come la poetica e la concezione del mondo dello scrittore siano state profondamente influenzate dalla sua sofferta vicenda umana. Per fare un esempio, un tema portante nelle opere pavesiane è l’opposizione tra città e campagna, luoghi che rappresentano lo scenario esistenziale del poeta. La città è concepita come un ambiente che genera solitudine e inadeguatezza, mentre la campagna e la collina sono sedi di un insieme di valori perduti e attinti dal mito, distrutti dall’incombere della civiltà industriale. Infatti, intorno all’antitesi campagna-città si annida un sistema di simboli, tanto da far parlare per l’universo pavesiano di una vera e propria “realtà simbolica”. Per l’autore quindi, compito della poesia è quello di rendere chiaro questo sistema di simboli, dando un senso di ordine e coerenza alla narrazione. Servendosi di questi simboli Pavese rappresenta la propria tormentata vicenda interiore, poiché è proprio con la scrittura che l’autore cerca di esprimere i propri tormenti, le paure e la consapevolezza del proprio fallimento esistenziale.