poi cambiai città, casa, numero di telefono.
non andai con nessuno per molto tempo.
nessuna casa, nessuna cucina.
persi i chili che avevo preso, mi tagliai i capelli cortissimi, li decolorai. ero bianca come una donna vecchia. ma non ero ancora abbastanza vecchia.
lui lo incontrai la prima volta un anno dopo le fragole, in una stazione di provincia. era aprile.
era magro che sembrava digiuno da mesi. ma il suo corpo era forte, si vedeva: aveva l’anima che lo teneva in piedi. un’anima malata di sopravvivenza.
si mise seduto accanto a me nello scompartimento di un treno che mi portava fuori, e che riportava lui a casa. parlò da subito, timidamente, di cose che mi sapevano di buono, dopo tanto tempo.
mi guardava negli occhi, mi ascoltava senza commentare. osservava dettagli a cui nessuno aveva mai fatto caso: l’attaccatura dei miei capelli, le caviglie, il disegno delle vene all’interno del mio polso. erano luoghi vergini, e qualcuno li stava vedendo per la prima volta. esistevano, alla fine.
la mia scollatura, il mio vestito a fiori, erano la confezione, le scarpe rosse servivano solo a tenermi ancorata a terra. ero un corpo astrale. era tutto nuovo. ma percepivo con precisione che in quel posto, in quel momento, ero giusta così com’ero.
mi accompagnò alla mostra che ero andata a vedere, ne sapeva molto, gli piaceva.
mi offrì una inedita vista della città, mi raccontò di sua madre mentre mi mostrava dei dettagli che io non avevo mai visto ad occhio nudo, da nessuna parte.
aveva il volto segnato da una adolescenza inquieta, ma gli occhi aperti di chi conosce l’amore perché lo aspetta. e dietro a lui mi sentivo gli occhi aprirsi un po’ di più, e un po’ di più, ora dopo ora. parlava come un bambino, ogni tanto, e la cosa mi dava un fastidio infinito.
ma mi trattenni dal dirgli qualcosa perché ero certa che non l’avrei più visto.
ma sapeva, sapeva, sapeva per un dono sovrannaturale.
sapeva che mi sarebbe piaciuta una dedica su un muro, da adolescenti, che amo il giallo, e che quando cammino i miei passi seguono una musica interiore. ebbi paura.
mi scrisse il suo indirizzo e-mail, ci salutammo, ma poi nessuno dei due andò via.
ci salutammo circa altre dieci volte, e altrettante trovammo delle scuse per non andare via.
pensai che forse era un segno, che potevo ricominciare a farmi crescere i capelli.
che potevo entrare di nuovo in una casa, in una cucina.
aveva una voce antica, ed un difetto di pronuncia dialettale che mi parvero sufficienti.
mi invitò a casa sua e pensai: come farà a togliermi i vestiti con quelle braccia così sottili?
riuscirà a sopportare il mio peso?
mi farà entrare in cucina?
così pensavo mentre la vita andava da un’altra parte.
lui non voleva affatto togliermi i vestiti, voleva mostrarmi casa sua.
e la sua casa era identica alla mia. identica. mi fece paura.
seppure in un’altra città, con un’altra vista (sul suo balcone c’era un allevamento i bachi da seta, che mi parve una cosa meravigliosa), il colore di certe pareti, alcune stampe, il pavimento anni sessanta erano identici a quelli di casa mia. la libreria di ikea. certo, chi non possiede una libreria svedese? ma messa lì, con quei titoli, quel taglio di luce, i film su un certo ripiano? ero terrorizzata.
il suo bagno odorava di vaniglia come il bagno di una donna, come il mio.
ma non era omosessuale, lo sapevo. era semplicemente solo, più solo di me.
la casa era solare, pulita, non c’erano foto, e non c’erano specchi, da nessuna parte.
forse non gli piaceva guardarsi. mi parve un buon motivo per non andarmene subito.
mi mostrò alcuni dei libri che stava leggendo per farne delle recensioni. mi offrì un caffè.
e mentre cercavo dei motivi per fuggire, mi fissavo sulle cicatrici che aveva sugli zigomi e su un dente spezzato che gli si infilava nel labbro inferiore mentre parlava, e mi dimenticavo di me stessa. poi, all’improvviso, nel silenzio, mi fece una carezza timida come un fiore a marzo e mi disse che ero bella. dietro a quel gesto non c’era niente, nessuna altra intenzione che quella carezza.
era il gesto più fine a se stesso che avessi mai subito. fu spaventoso.
non so come accadde. mi addormentai sul suo divano. all’istante, di botto, crollai come un sacco che cade giù da un treno in corsa, facendo rumore.
dormii due ore, di un sonno nero e senza sogni, un sonno benefico, un sonno da bambini.
quando mi svegliai, sul tavolino accanto a me c’era un vassoio con delle tartine colorate, perfette, tutte diverse: paté d’oca, crema di pomodori, mousse di carciofi. e un bicchiere di gewurtztraminer ghiacciato. su un foglietto adesivo, dov’era segnato il suo indirizzo e-mail, aveva scritto in uno stampatello viola: “sono sotto la doccia, fa’ come se fossi a casa tua“.
le forze mi lasciarono tutte insieme. provai a sollevare una tartina ma non avevo più lo stomaco al solito posto, era scomparso. mi ci volle qualche minuto per realizzare che non potevo stare lì col rischio di perdere anche qualcun altro dei miei organi vitali.
scappai via lasciando lì foglietto, occhiali, il biglietto del treno di ritorno.