Ho un rapporto particolare con le parole, le considero oggetti, mi ci affeziono ad esempio, non mi piace siano maltrattate, le colleziono. L’inglese abusato o il latino inglesizzato mi provocano orticaria, attacchi di prurito, nausea. Un amico che ho malmenato per avermi detto che usciva con una “girl con la mia car” potrà confermarlo. Ecco perché, paradossalmente, ho provato una simpatia immediata e un trasporto per Andrea Campi, protagonista di “Studio illegale” di Federico Baccomo Duchesne, quasi senza aspettare che si producesse con lo scorrere della trama, della storia, istantanea come un colpo di fulmine. Un uomo costretto a sentire bestialità linguistiche tutto il santo giorno merita la mia solidarietà senza che debba spiegarmi altro. In realtà, di ragioni per solidarizzare con lui nel libro ce ne sono parecchie altre.
Andrea Campi, trentunenne milanese, è un avvocato d’affari, definizione che elargisce immediata ai suoi interlocutori intimorendoli e scoraggiandoli dal tentare ulteriori approfondimenti. Ad un avvocato, si sa, viene spontaneo chiedere, prima ancora che il nome di battesimo, un consiglio su di una vecchia bega tra vicini o su un recente incidente automobilistico, ma ad uno d’affari che cosa vorrete chiedere mai? Non resterà che trovare il primo medico a portata di mano cui sottoporre una serie di domande a raffica sulle emorroidi. Nello studio legale internazionale in cui lavora, dal nome impronunciabile, figure d’ogni sorta si alternano: arrivisti, leccaculo, manager sovraeccitati eccetera. Ognuna di queste persone è smascherata, resa nuda e infine ridicolizzata dalla pungente ironia di Baccomo, alias Duchesne, che approda a questo esperimento letterario (stavolta è il caso di dire viva la modernità) dopo aver raccontato in forma anonima le sue vicissitudini da giovane e avvilito avvocato rampante sul suo blog (oramai fermo), diventato crocevia di frotte di praticanti, neolaureati , giovani legali: insomma una miriade di esseri umani in cerca di una strada in genere. Una spia, un Mata Hari in completo scuro, raccontava e prendeva in giro questo sistema alienante, che non lascia spazio all’individuo, al “chi sono” ma solo “al cosa faccio”.
A rompere l’incantesimo dell’anonimato ci ha pensato il bollino SIAE, il tutto accompagnato da qualche polemica abbastanza sterile, poiché Baccomo non era più un avvocato d’affari. Da paladino a traditore è un attimo. Questo non ha scoraggiato le vendite del libro e la sua diffusione, per fortuna, al punto che tra pochi giorni sugli schermi italiani ci sarà la sua trasposizione cinematografica e, visto il trailer, non dubito farà ancora parlare di sé.
Il libro si legge in un lampo, scorrevole e ironico procede a ritmo mai troppo serrato e mai troppo lento. Il cinismo, che pare rivolto agli altri, racconta egregiamente pensieri e sensazioni del protagonista, come un riflesso in uno specchio che può sembrare altro, invece è solo una riproduzione di qualcosa di già esistente. Vera chicca le piccole disgressioni sulla pausa caffè che sono a dir poco esilaranti, una in particolare, legata a Leopardi, ha rischiato di farmi soffocare dalle risate.
Riassumendo vi sto vivamente consigliando di leggere il libro di un autore giovane che ha scritto un piccolo romanzo brillante, divertente, dopo aver spopolato in di un blog al punto da essere stato contattato da una casa editrice, la Marsilio, per scrivere questo suo primo romanzo, cui è seguito il secondo “La gente che sta bene”.
Non sono una persona sportiva lo ammetto, a pensarci mi sta montando una certa invidia, mi faccio un giro in car, poi mi fermo e prendo l’ ebook reader, leggiucchiando prima di organizzarmi per il weekend, tutto questo mentre odio il mio boss. Magari passa di qui un editore e mi propone qualcosa, pure a pagamento.