e a un certo punto mi venne voglia di carne.
a chiunque sarebbe venuta voglia di carne, credo. no?
carne qualsiasi, carne buona, filetti, entrecôte, costolette, arista di maiale, hamburger del macdonald’s, fettine panate surgelate scongelate e fritte, le polpette di mia madre da mangiare con le mani, il pollo arrosto, la porchetta dell’ambulante davanti allo stadio.
la carne, per me, non è mai appartenuta a un uomo solo. era di tanti uomini diversi.
uno alla volta, eh, perché certe cose non le faccio.
ma il tempo della carne è stato di tante storie diverse.
me li ricordo tutti, i volti, la forma dei sessi, i colori che avevano alla luce dei fari della mia auto o delle loro abat-jour. anche se in casa, quasi mai.
e mi ricordo i loro nomi perché sono una che porta rispetto.
ma soprattutto mi ricordo le corse al bancone del fast food, dopo.
o in autogrill, per un panino con la cotoletta, quando era troppo tardi perfino per uno di quei “paninicon tutto” al baracchino della stazione.
amo gli autogrill. sono rassicuranti, tutti uguali. c’è sempre la stessa roba, sai che svoltando l’angolo troverai i togo a sinistra, e i formaggi in un ripiano speciale con i prodotti della regione.
sai che ci sarà in offerta il distributore m&m’s, il gatorade nel frigo, gli spicchi di pizza sempre calda. all’autogrill si mangia bene perché la roba va via in fretta, perciò quella che trovi è sempre fresca. ci sono gli occhiali e i cd ridicoli alla fine del corridoio. i piccoli sgabelli da pescatore in offerta. le gomme da masticare, i giornaletti porno nascosti dietro a tutto il resto.
i bagni sono di sotto. sempre.
e poi gli autogrill sono più solitari e discreti dei fast food. non c’è mai fila, tranne che alla cassa.
io correvo con la mia macchina fino al primo autogrill del raccordo anulare. spesso.
avevo una A112, dove ogni tanto facevo l’amore con gli uomini della carne. io sopra, sul sedile del guidatore. era scomodo, ma poteva durare in eterno: la carne è abbastanza varia da poter cambiare gusto ogni giorno.
ma prima o poi sarebbe finita.
dovevo capirlo già quella volta che un ragazzo, abbastanza giovane da non pettinarsi mai, mi diede un morso sul braccio e mi fece uscire il sangue. mi diceva che ero morbida, commestibile.
e mi morse. ora mi viene in mente il labrador, ma allora non feci nessun collegamento tra i due episodi. mi vennero in mente piuttosto certi rituali di haiti in cui si mangiano animali vivi, o in un tempo più antico si mangiavano i propri nemici. ma lui non era uno stregone. ed io non ero il suo nemico, non credo almeno. e non c’era niente da celebrare. fu un morso gratuito, insomma. vuoto. quello del labrador aveva avuto più senso. non mi piacque, poi mi venne da ridere e lo riportai a casa.
ero sempre io a riportarli a casa, o a scappare via: dopo dovevo cercarmi la carne in solitudine, non potevo mica chiedere loro di accompagnarmi.
non è mai successo che io abbia condiviso la mia carne con qualcuno.
e non la mangiavo nemmeno in casa loro.
non è educato. ci si può svegliare nottetempo nelle case altrui e mettere su l’acqua per una pasta aglio e olio, saccheggiare le credenze. ma la carne no: non è educato.
costa troppo, fa fumo, odore forte, è personale.
non si tocca. così salivo in macchina e andavo a cercarla.