Ci sono storie che restano nell’ombra, e quando, dopo molti anni, qualcuno decide di raccontarle e di dare una voce a chi le ha vissute, viene spontaneo chiedersi: ah, c’erano anche loro? Julie Otsuka racconta, nel suo ultimo romanzo, una di queste storie. In Quando l’imperatore era un dio, l’autrice decide di dare voce a tutti i Giapponesi residenti negli Stati Uniti che sono stati deportati durante la Seconda Guerra Mondiale, da tutti mal visti pur non essendo direttamente responsabili di ciò che stava accadendo a migliaia di chilometri da loro.
I cinesi, camminando per le città, portano sul petto un distintivo che afferma la loro nazionalità: temono di essere scambiati per giapponesi ed essere esposti all’odio generale. È in questo clima che un giorno, a Berkley, California, appaiono degli avvisi per i cittadini giapponesi. Vengono avvertiti che dovranno partire fra pochi giorni, ma non viene loro comunicata alcuna destinazione. Una madre legge l’avviso e comincia a preparare i bagagli, suoi e dei due figli. Il padre è stato arrestato poco prima, portato via in pantofole per essere interrogato.
La famiglia parte. Vengono prima trattenuti in un ippodromo in disuso, poi portati a vivere in capannoni in mezzo al deserto, dove d’estate si patisce un caldo torrido e terribile e d’inverno si rischia il congelamento. Ognuno viene sottoposto ad un questionario che deve provare la fedeltà verso gli Stati Uniti d’America: basta una risposta sbagliata, e si sparisce. Il cibo e poco, il misero lavoro che viene offerto è pagato una miseria, la noia consuma gli animi e le forze.
Il personaggio più interessante del romanzo è la figlia. Ha dieci anni all’inizio del romanzo, ma già ne dimostra di più. Intelligente e sagace, scruta ciò che accade intorno a sé con uno sguardo insolitamente disincantato per la sua età. Ha un temperamento indipendente e altero che la porterà, nel periodo del deserto, a volersi sentire grande, a frequentare cattive compagnie, a fumare. È veramente un peccato che l’autrice non approfondisca ulteriormente l’evoluzione di questo personaggio, che rimane tratteggiato ma poco definito.
Purtroppo la scarsa definizione è una caratteristica che abbraccia l’intero romanzo. Dico purtroppo, perché fin dall’inizio la vicenda cattura l’attenzione, anche perché descritta con lucida sensibilità. Ma sembra quasi che l’autrice voglia solo darci un assaggio di questa storia, senza arrivare a soddisfare la curiosità del lettore. Posso quasi azzardarmi a dire che il romanzo è interamente costituito da inizi, che non vengono sviluppati e conducono quasi sempre ad un finale semplicistico. La Ostuka costruisce un romanzo in potenza, che, una volta finito, lascia con la voglia di vederlo in atto.