L’amore per le frontiere sarebbe diventato una costante del mio lavoro giornalistico. Viene da lì, dalla frontiera che avevo dentro”.
Si apre con un po’ di timore un libro firmato Lilli Gruber. Non è la paura di andare incontro ad un fiasco a lasciare con il fiato sospeso, piuttosto la consapevolezza di trovarsi di fronte ad una delle giornaliste che ha scritto la storia dell’Italia moderna, raccontandola con un carattere deciso, originale, duro a volte. Con un background simile (ed il segreto desiderio di essere nei suoi panni almeno per un giorno!), ci si ritrova con le mani tremanti a sfogliare un libro in cui il mezzo-busto più famoso d’Italia mette a nudo le sue radici.
Come può reggere il confronto con la sua immagine? Verrebbe da domandarsi.
Eppure, fidatevi, a scoprire l’eredità che si nasconde dietro la ferrea figura di Lilli Gruber, non ci si perde affatto. Con uno stile asciutto, descrittivo, che in alcune sfumature riporta la dolcezza dei ricordi d’infanzia, percorre una strada che a volte sorprende. Non è infatti solo la vita di Rosa Tiefenthaler, sua bis-nonna, che l’autrice racconta, ma la nostra.
Attraverso passaggi che mettono a confronto passato e presente, il vecchio e il nuovo, quasi a volerne evidenziare i tratti in comune, è la storia d’Italia che ci si presenta davanti. Partendo dall’immagine autorevole della padrona di Pinzon, prima imprenditrice nel villaggio sudtirolese fortemente legato all’Impero Asburgico, il viaggio si scopre molto più complesso, e la durezza della sua storia ci costringe a guardare in faccia le realtà non raccontate di uno Stato forse mai realmente ripresosi dal secondo dopo guerra.
Un territorio diviso, quello sudtirolese, nella cultura, nell’identità e nella lingua, in cui la lotta contro l’invasore italiano diventa una questione più profonda, il diritto a rivendicare il potere di scegliere le proprie radici. In un’epoca in cui il mondo parallelo della rete abbatte ogni distanza, può sembrare una lotta inutile, quella che combatte per decidere quali confini le appartengono, ed è per questo che la memoria esiste. Per ricordare che l’identità di lingue e culture è una tradizione ben profonda, ancora oggi fonte di ribellioni. E quando il focolare è acceso, la fiamma può invadere ogni cosa. Lo racconta, Gruber, senza false ideologie, con una coscienza obiettiva, che riporta i fatti e prende le distanze. Perché quando lo scenario cambia, e la fame della Prima Guerra Mondiale precipita nel fango delle dittature, non esita a mostrare l’altro lato della storia, quello oscuro, confuso, che vede la figlia di Rosa, Hella, sulla scena nazista, trasportata, dall’ardore di difendere la propria cultura, dritta tra le braccia del Führer. Pagherà sulla sua pelle questa scelta, ma pure tenendo conto dell’ingenuità di un altro tempo, Lilli Gruber non può evitare di domandarsi, cosa sapeva Hella? Poteva davvero ignorare quello che stava succedendo? E più di ogni altra cosa si domanda, come, nella sua comunità, sia svanito dai libri di storia il rovescio della medaglia della lotta anti-fascista.
È l’Eredità di una giornalista che, tra le righe, lascia intravedere la passione di una vita dedicata al lavoro che ama, e che forse deve proprio ad una famiglia che, con la sua complessità, le ha permesso di coltivare la curiosità per il mondo.
Ma è anche un’eredità italiana questa, la convivenza che in alcune parti del continente ha lasciato un sapore agrodolce, e il peso del fascismo, con la sua politica filo-nazista, che in alcuni amanti della revisione storica appare come una scelta obbligata di un paese per tradizione non-belligerante. Ma la verità è che un’eredità noi l’abbiamo, e se non ci scandalizziamo davanti alla resurrezione di CasaPound, il lavoro di cronaca di una giornalista risulta inutile.