Avviene quasi per caso il mio incontro con Adriana Zarri. Cercavo un libro diverso, per una volta un non romanzo, che mi desse il brivido di parlarne senza dover raccontare trame o dinamiche psicologiche dei personaggi. Così, tra gli scaffali di un corridoio di passaggio di una famosa libreria, m’imbatto in questo titolo “Quasi una preghiera”, una raccolta postuma di brani inediti e non, una piccola summa del pensiero controcorrente di questa scrittrice teologa morta nel 2010, che aveva scelto uno stile di vita monastico nelle campagne piemontesi e perseguiva un’esistenza da eremita senza per questo rinunciare al contatto col mondo e le sue più variegate espressioni.
Il filo conduttore dei vari capitoli, ognuno titolato con le parole stesse dell’autrice, è la preghiera. Il concetto tradizionale di preghiera viene investito, nelle parole della Zarri, di un ulteriore significato, caricato di un senso più vero ed intimo, maggiormente rispondente ai bisogni più profondi, che originano dall’esigenza primaria di stabilire un contatto amorevole con una realtà altra da noi, cui rivolgersi per esprimere i propri dubbi, le proprie richieste, le ansie e, perché no, anche le indignazioni per tutto ciò che si avverte ingiusto e superficiale.
Ma prima di tutto, la preghiera può trovare un senso solo se si è in grado di creare un silenzio intimo, in cui il cuore possa trovare lo spazio, fatto vuoto di ogni superfluo rumore circostante, per guardare e guardarsi, per osservare ed ascoltare il vero sé ed il mondo che c’è intorno.
Superata così, ma non rinnegata, la ritualità della forma-preghiera, la Zarri s’inoltra nel territorio di una orazione legata all’esistenza naturale, alla sua stagionalità, all’alternarsi di acqua, vento, sole, cui il nostro essere è, o dovrebbe essere, intimamente connesso. L’inverno e l’autunno intesi come momento di pausa e non di sconsolatezza, di sonno dentro cui la natura si ritira e non come simbolo di morte, preparazione silenziosa in attesa della fioritura primaverile e della maturazione estiva.
È l’invito ad apprezzare ogni stagione, con le sue particolarità, nessuna delle quali in sé negativa, ma tutte inserite in un disegno di armonia, che il creato dispiega e che l’uomo dovrebbe rispettare, adattando ed adottando la natura senza violentarla.
In queste fasi naturali la scrittrice rimanda alle ricorrenze religiose caricandole di un valore più pregnante; così ad esempio la Quaresima diventa occasione di riconoscimento del peccato al fine del proprio rinnovamento, e il digiuno è concepito non già come penitenza bensì come opportunità per imparare a mangiare, il distacco come mezzo per pervenire ad una fruizione più libera dei beni della terra. Mentre la Pasqua è un rinascere a nuova vita dopo avere affrontato il percorso del dolore e della responsabilità.
Ma è anche la descrizione di un Dio della novità, dello stupore, del fervore, quello che la Zarri ci consegna, è un invito a rimanere sempre connessi alla vita, al suo significato più vero, ad aprirsi alle cose con occhio sempre attento, non considerandone banale nemmeno un pezzetto.
E infine la preghiera è intesa dall’autrice come una specie di grazia, una facoltà che s’inserisce nella categoria del dono, da accettare con riconoscente semplicità; ed è altresì un momento di gratuità, un soffermarsi, un “perdere tempo”, un sostare contemplativo, alla maniera degli asceti, sulla soglia del mondo, l’opportunità di socchiudere la porta di comunicazione con esso per aprirsi alla meditazione, per dare senso al vuoto in un mondo ormai vuoto di senso.
“Ecco, facci capire che tutte le realtà del mondo sono strade, e insegnaci a percorrerle perché, alla fine, ci sei tu; ma prima bisogna molto camminare, e sporcarsi i piedi, come l’amante del Cantico, e inseguirti nella notte…”
Ecco, per chi crede e per chi non crede, sarebbe bello che i nostri non fossero cammini ciechi.