Jean Jacques Rousseau “fa nascere e crescere davanti a noi la società borghese”. Così scrive Ernst Cassirer (1932) nel suo saggio su “La filosofia dell’Illuminismo”. E nel ripercorrere il pensiero dei principali esponenti della corrente filosofica più feconda della modernità, Cassirer riserva a Jean Jacques Rousseau un posto particolare.
Spirito acuto, sensibilità esasperata e una raffinata capacità di osservazione nutrita negli anni difficili dell’infanzia e della giovinezza rendono Rousseau un pensatore al limite della filosofia illuministica, capace di staccarsene pur restandovi saldamente (e controversamente) ancorato con la forza che nasce dalla disperazione, quella senza barlumi di chi lotta contro il cieco timore dell’abbandono, la paura di non appartenere a nessuno, di non essere riconoscibile né riconosciuto, un outsider facilmente tralasciabile e dimenticabile, nella storia dell’umanità e in quella personale.
Precocemente segnato dalla morte della madre, uccisa dalla febbre puerperale poco dopo averlo dato alla luce, nel giugno del 1712, secondogenito di un orologiaio di Ginevra, Jean Jacques trascorre i primi anni della sua infanzia tra orologi e libri. Legge Bousset, Fontanelle, Molière ma soprattutto le “Vite” Plutarco, che nelle “Confessioni”, sua ultima opera di rilievo, definisce sua lettura prediletta.
A 10 anni perde anche il padre. Costretto a lasciare Ginevra a causa di una lite, egli lo affida a un pastore che gli insegnerà i valori morali del calvinismo, trasmettendogli un fondamentale amore e un profondo senso di rispetto per la natura. Jean Jacques non rivedrà il padre quasi mai più. Gli abbandoni precoci lo rendono inquieto, portandolo al pellegrinaggio. Paure e manie lo spingono a lasciare Ginevra per un banale incidente: una sera, di ritorno in città, trova le porte chiuse e decide di voltare le spalle al suo luogo natale. Si rifugia da madame de Warens, che lo accoglie come domestico, lasciandolo presto entrare anche nel suo letto. Sarà lei a spingerlo verso il cattolicesimo. Un passo affrettato, la conversione, di cui Rousseau si pentirà negli anni della maturità.
L’appuntamento con gli illuministi, Diderot, d’Alambert, Voltaire, Condillac, è a Parigi, negli anni ’40. L’incontro intellettuale è estremamente fecondo. Non altrettanto quello personale: il pessimo carattere, dovuto all’ipocondiria, alla convinzione di avere vita breve (Rousseau era affetto da calcoli e costretto a portare il catetere, che nascondeva vestendosi all’armena) e alla paura della morte lo portano all’insanabile rottura con tutti gli amici illuministi. Circostanza dolorosa ma allo stesso tempo ricercata, che riecheggia e ripete e rumina la sofferenza provata nell’infanzia. Preferisce legarsi a Thérèse Levausser, una stiratrice rozza e ignorante, certo che gli rimarrà accanto per tutta la vita. E così sarà (i due si sposeranno nel 1768, quando ormai a Rousseau sarà rimasta tra le mani poco più che cenere di un passato illustre, in una stanza d’albergo a Bourgoin, con rito calvinista celebrato dallo stesso Rousseau), anche se non sempre rispettando il dogma della fedeltà. Le sue opere principali, la cui fortuna si deve all’interessamento degli illuministi, il “Discorso sulle scienze e sulle arti”, quello su “L’origine e i fondamenti dell’ineguaglianza tra gli uomini” (1755) e “Il contratto sociale” segnano sin dall’inizio una rottura nella continuità tutta lineare e razionale dell’illuminismo.
Rousseau porta l’esercizio della ragione alle sue estreme conseguenze, fino a mettere in discussione il principio fondante su cui poggia l’intera architettura illuministica, quello della fiducia cieca nella “ragione”, certo, ma nella ragione “buona”, “socievole”, intesa come spinta propulsiva e fondamento stesso della moderna società. All’interno di un epoca storica e psicologica in cui il mondo è considerato un posto felice da scoprire e dominare con benevolenza, Rousseau getta un seme nichilista destinato a fiorire solo secoli dopo. La ragione lo spinge a dubitare di ciò che nessun illuminista osò mai mettere in discussione: la concordanza, o meglio l’unità indiscussa tra coscienza morale e coscienza civile, la convinzione di vivere nel migliore dei mondi possibili, la fiducia nella costante, positiva evoluzione dell’uomo e del suo mondo. Un mondo di cui Rousseau avverte tutta la precarietà. Alla mente dello “spirito” si affaccia il pensiero (il dubbio) che la sofferenza e il dolore non siano dovuti solo a un caso avverso, ma a qualcosa di sbagliato che cresce e pasce e prolifera nella stessa organizzazione del mondo. Come antidoto Rousseau propone il ritorno a uno stato di natura, in cui non esiste né desiderio né spinta alla socialità (l’uomo non è un animale sociale), ma un semplice bastare a se stessi. Se il mondo in cui viviamo è nato casualmente, non è detto che sia il migliore che possiamo realizzare. E dietro la problematicità di un paventato pessimismo, si può scorgere forse anche la speranza di vivere domani in un mondo migliore. Domani, non oggi. Oggi, nell’oggi di Jean Jacques Rousseau, non ci furono grandi svolte positive.
Morì nel 1778, dopo anni irrequieti di vagabondaggio, bollato dall’infamia dell’empietà per il suo Contràt social, incompreso dal suo tempo e litigioso con gli amici (ruppe anche con Hume, presso il quale si era rifugiato in Inghilterra dopo essere stato costretto a lasciare la Francia), accolto da un semi-sconosciuto, il marchese di Girardin, che gli aprirà le porte di casa sua per offrirgli una morte meno solitaria. Il compito di migliorare il mondo l’ha lasciato ai posteri, ma al momento la realizzazione sembra parecchio lontana.