Peregrino, profugo, Cardarelli, “viaggiatore insocievole” protagonista assente della commedia di una vita passata in stazioni ferroviarie, città europee, redazioni di giornali, nascosto a se stesso e agli altri. Le sue verità sono metafora e antonimo l’una dell’altra. Amore come abbandono, in quanto “non c’è amore che non riconosca l’inevitabilità di certi abbandoni” per il “bisogno che ciascuno ha […] di tornare a vivere per conto suo” (Prologhi, Constatazioni). Solitudine come necessità abitudinaria per costruire rapporti umani, poiché “l’uomo è una talpa che per potersi salvare ha bisogno d’imbucarsi qualche volta” (Prologhi, Nuovo addio). Viaggio, “il terrestre viaggio” (Arpeggi), come esperienza di vita e di morte, nella quale Cardarelli trascina dietro “un bagaglio pesantissimo, tutta la mia esistenza” (Favole della genesi, Il cielo sulle città). Lo stesso fardello che Giorgio Caproni si porta dietro in Congedo del viaggiatore cerimonioso, “una valigia pesante anche se non contiene gran che: tanto ch’io mi domando perché l’ho recata […], ma pur la debbo portare, non fosse che per seguire l’uso”. Fare le valige, raccogliere frammenti di storie, ritagli di stoffe, è una “inebriante e tetra occupazione” come “colpi di zappa in quella terra lurida e consunta che è il nostro passato, fra i ricordi che affiorano quale ossame sospetto” in un camposanto senza fiori e senza lapidi (Cardarelli, Sgombero).
Il viaggio come morte, e viceversa, in Cardarelli come in Ungaretti in Inno alla Morte, quando immemore dei luoghi e delle ore, senza “Sentimento del Tempo”, Giuseppe afferma: “avrò il tuo passo, andrò senza lasciare impronta”; come Clemente Rebora in O carro vuoto sul binario morto, il quale “per l’immutabile legge del continuo aperto cammino […] non muore e vorrebbe, non vive e vorrebbe […] nel labirinto dei giorni, nel bivio delle stagioni”; come Vittorio Sereni in Settembre, quando dice che “nella morte già certa cammineremo con più coraggio, andremo a lento guado coi cani nell’onda che rotola minuta”; come Attilio Bertolucci, quando spera di incontrare la donna amata “là dove vita e morte hanno una sosta” (Portami con te); come Diego Valeri in Riva di pena, canale d’oblio dove si odono “solo quegli urli straziati d’addio, dei bastimenti che lasciano il porto”, simili a pianti funerei. Gli stessi “che si versano alla partenza di un treno o d’un piroscafo […] come se, per il fatto di avere un biglietto ferroviario in tasca, ci fossimo posti fuori dalla vita, in condizioni di esuli o di morituri” (Cardarelli, Il viaggiatore insocievole, in Riflessioni sul viaggiare). “Accompagnare un uomo alla stazione è perciò un ufficio pietoso, quasi funebre” a cui ci si vuole sottrarre per evitare lo sguardo del viaggiatore che “con l’animo d’un esule, con occhi di morituro” è “già in cammino e fuori della vita” (Cardarelli, Viaggio). La terra che si lascia diventa allora “un asilo vietato, un cimitero di memorie”, come “un letto di legno” troppo grande e scomodo per dormirci dentro, una bara forse, che ricorda il talamo “di Ulisse” e “la morte è la mia Penelope” da cui partire e a cui tornare (Cardarelli, Lembi di lettre sottratti alle fiamme, in Lettere non spedite).
E allora forse si può anche “morire persuasi che un siffatto viaggio sia il migliore”, quello della vita.