L’erba tremava sotto il leggero vento estivo che solleticava i nostri corpi ubriachi. Ci eravamo addormentati con due bottiglie di champagne ancora nelle nostre mani, vuote e leggere. L’aria frizzante ci puliva dalla musica assordante che ancora rimbombava dentro una casa a noi sconosciuta, avvolgendoci in un mondo perfetto, silenzioso e pulito.
La tua camicia viola era tutta spiegazzata e la cravatta argentata ti cadeva da un lato, poggiandosi sull’erba tenera di quel giardino incantato.
Mi riappropriai dei ricordi ancora freschi che avevo abbandonato addormentandomi e capii che eravamo ancora lì e ancora noi, imbucati in una festa di persone senza nome. La sera prima un’idea lucente come solo il sabato sera sa essere – brilla, scintilla, offusca le stelle – sfiorò la nostra mente: vagare per la città, alla ricerca di ville sfarzose e divertimenti viziosi, perdersi in occhi sconosciuti, bicchieri colmi d’alcool, musica ad alto volume e anime vuote, vaganti, nichiliste.
Buona fortuna, ci dicemmo prima di entrare nella casa vittoriana tutta bianca, e poi scavalcammo l’inferriata in pochi secondi.
Pareti vestite di quadri, mobili nuovi, che sanno ancora di legno e tavolini di vetro stuprati da sorrisi senza valore, urla e risate acute, fastidiose. Era come l’esulto di una morte nel centro del Paradiso.
Spazi condivisi da gente che sembra volersi bene senza nemmeno conoscersi e sotto un’apparente quiete, la tempesta. Sguardi tristi, occhi trasparenti, che ingurgitano quantità spaventose di alcool, ballando a ritmo di musica, per dimenticare dolori personali.
Ti facesti spazio in mezzo alla folla che riempiva un salone dai divani bianchi, che sembravano neve gelata. Io immobile a guardarti calpestare l’erba verde e curata, che quasi luccicava sotto i pallidi raggi della luna. Eri entrato nella stanza oltrepassando una vetrata enorme: come fosse un gesto che avevi sempre compiuto, come se ti trovassi in casa tua, facesti scorrere la lastra di vetro gigante e varcasti il confine che delimita il silenzio del giardino e il caos dell’abitazione.
Dalle casse usciva fuori una canzone che non conoscevo. Di una potenza nietzscheana, induceva chiunque a muoversi ad occhi chiusi, a ballare rilasciando le proprie tensioni e preoccupazioni, senza la strana inibizione provocata dalla consapevolezza di poter essere guardati dagli altri.
Ti agitavi come un demone impazzito e ogni tuo movimento era intriso di tristezza. Non sapevo nemmeno come comprendere una cosa simile, ma ogni passo distillava una sorta di malinconia, che si appiccicava anche ai tuoi respiri, come un’ombra.
Intorno a te prendevano vita baccanali improvvisati, ruvide labbra che, ghiotte, cercavano pelli di vaniglia da percorrere. Orge di mani e di baci inflazionati, di corpi aggrappati a realtà distorte, nel bel mezzo di un’atmosfera allucinogena.
Trasgressione e perversione si abbracciavano, formando un circolo vizioso perfetto.
E tu ballavi, noncurante di tutto, fonte di tutti quei surrogati d’umanità: sembravi il proprietario della casa, l’animatore della serata, l’ospite d’onore della festa dell’anno.
Sfoderavi il tipico sorriso da bello e maledetto e ogni ragazza ed ogni ragazzo mettevano gli occhi su di te, e mai più li distoglievano. Ammaliavi chiunque davanti alle mie pupille terrorizate, che ancora dovevano abituarsi all’accecante energia che inspessiva le mura che ci tenevano prigionieri.
Afferrai un bicchiere di cristallo colmo di liquido imbevibile e lo buttai giù con prepotenza, con la crudezza tipica di uno stupratore. Sembrò che il mio stomaco andasse in fiamme. Chiusi gli occhi e mi mossi perdendo il controllo, fino a crollare senza più lucidità alcuna, come se avessi fumato e bevuto a volontà. Uno spiraglio di realtà si intrufolò in mezzo alle mie iridi incandescenti e ti vidi sciolto, completamente passivo, in un avido bacio, mentre due braccia lunghe, chiare e bellissime, cingevano la tua vita, guidandola a ritmo di musica.
Soffocai un pianto, o forse rabbia liquida ed amara e mi persi nei meandri di una bocca che sapeva di vodka alla pesca e segreti inconfessabili, terribili.
Poi quel che accadde dopo non l’avrei mai più ricordato.
Come risvegliandomi da un brutto sogno, aprii gli occhi tutto d’un colpo. I miei sensi intorpiditi captarono la tua presenza attaccata alla mia, il tuo volto così vicino a me da poter sentire l’odore del tuo dopobarba. Così vicini da sfiorarci col respiro, stavamo immobili a fissarci, scrutando negli occhi dell’altro nuove realtà da costruire, o forse un futuro lontano da quella serata, per noi già conclusa. Era senso di colpa? O forse un capriccio innamorato dell’ambiguità finalmente soddisfatto? Cos’era, come si chiamava quel lampo di serenità che illuminava i tuoi occhi?
Mi tendesti una mano ormai lontana dai divertimenti sfrenati che davano il nome a quella serata, riparata dall’eco vicinissima di gemiti notturni, dallo sciabordio del mare impetuoso della passione, capace di spaccare in due la sobrietà dei nostri spiriti. L’afferrai e mi lasciai guidare da te, gli occhi aperti ma come bendati.
Uscimmo in giardino, dove l’aria frizzante fluttuava leggera tra nostalgia e quiete, così palpabili da poterle azannare ed ingoiare su quel palcoscenico di cespuglie e fili d’erba.
Mi stesi sul prato e tu rientrasti un attimo in casa, il tempo di recuperare due bottiglie di champagne e di brindare al nostro piccolo universo.
Parlammo del più e del meno guardando il cielo nero come la pece. E poi ridemmo, ridemmo fino alle lacrime, prima di scivolare in un sonno alcolico, ubriaco.