Perché ogni pasto è stato ormai cucinato, piatti e tazzine lavate, i bambini sono andati a scuola e usciti fuori, nel mondo. Di tutto ciò non rimane niente. Ogni cosa è svanita. Nessuna biografia o storia dirà una sola parola al riguardo…Ognuna di queste vite, infinitamente oscure, devono ancora essere raccontate”.
Ora pensate di perdervi nella folla. È il 1928, ma potrebbe essere qualunque altro anno, e potreste essere qualunque donna. Stretta nella calca di una manifestazione in India, con un cartello che grida giustizia; o pigramente seduta su un divano, con la tv accesa su un nuovo quiz, ad osservare distrattamente una vostra coetanea che porta una bustina in reggiseno e mutandine. O magari vi trovate in un’aula Universitaria, per tenere una lezione in un College femminile. La bocca si secca, le parole si fermano sul nascere. Ma dovete dire qualcosa, perché, come scrittrice, vi è stato chiesto di parlare di “donne e letteratura”. E avete tanto da dire, vorreste spiegare così tante cose, in così poco tempo. Parlare a quei volti giovani che vi scrutano come si scruta un Dio, con ammirazione e un pizzico di invidia.
Come si può spiegare a quel pubblico? Come si può spiegare la rivoluzione?
Perché, facendo un passo indietro, è ancora il 1928, a poco tempo dal crollo di Wall Street. Il mondo sembra impazzito, due ometti vestiti da leader gridano contro gli intellettuali, e chiedono alla donna di tornare davanti al focolare. Suona familiare, vero? Virginia Woolf pensa a tutto questo, mentre si immerge nel pubblico di giovani donne a cui le è stato chiesto di parlare. “Chiamatemi come vi pare” dirà loro, non ha importanza, perché io non sono davvero qui, dietro una cattedra, sono tra voi. Così comincia il suo viaggio, che è un viaggio lungo e complicato, e parte da una piccola, invisibile, rivoluzione, l’opinione. Non sarà una verità quella che Virginia Woolf ci fornirà, quel nocciolo di indiscutibile saggezza servito da accademici professori, che fino a quel momento hanno vietato l’accesso femminile alle loro aule. Ma un’opinione, che in sé racchiude il dubbio, l’incertezza, la discussione. E questa opinione è di una semplicità disarmante “una donna deve avere soldi e una stanza tutta per sé, se vuole dedicarsi alla scrittura”. Perché non ci si può dedicare a qualcosa se non si trova uno spazio dentro sé, se non si rivendica il diritto ad averlo e a poter guadagnare da ciò che si vuol fare. Perché “La libertà individuale dipende da cose materiali. La poesia dipende dalla libertà individuale”, e non c’è muro su cui si possa misurare la grandezza delle donne, perché non vi è grandezza da misurare. Per secoli chiuse in una stanza, ad osservare la vita e sé stesse come uccellini chiusi in una gabbia, con la paura di sembrare ridicole, e uscire fuori da uno schema creato da una società di cui non sono parte attiva.
“Siate rivoluzionarie!” esclama Virginia Woolf “fatevi una cultura, e da questa imparate a ragionare. Visitate il mondo, e ironizzate sui vostri compagni!”. Relegate ad un’ignoranza imbarazzante, neanche la strada segnata da Jane Austen, George Eliott o Aphra Ben, potrà lavare quest’onta.
È un saggio complesso questo, a metà tra un romanzo e una rivendicazione, che ha avuto il potere di decostruire il linguaggio maschile per lasciar spazio ad una nuova prospettiva femminile. Ma la sua forza è ancora straordinariamente attuale. E se la rivoluzione fosse nascosta in un angolo della vostra mente, e si facesse spazio tra notizie di stupri-omicidi, violenze domestiche, o semplicemente nella ricerca di una vostra identità…è il momento giusto per prendere in mano “Una Stanza tutta per sè”.