Diana Waghenbach è un giovane avvocato. Vive e lavora a Berlino ed il suo matrimonio con Philipp naviga in cattive acque. La recente scoperta del suo adulterio precipita la donna in una crisi profonda, che coincide con l’aggravarsi della malattia di un’anziana parente inglese, zia Emmely Woodhouse. La decisione di partire per l’Inghilterra viene dunque presa rapidamente, ed ha il duplice scopo di avvicinare la donna alle radici della sua famiglia e allontanarla contemporaneamente dal marito. Dopo una breve visita alla malata, Mr. Green, il fedele maggiordomo, la condurrà alla dimora avita: Tremayne House, una villa vittoriana con il sapore malinconico della caducità. La zia, ormai prossima alla morte, consegna a Diana, ultima discendente della famiglia, il compito di far luce sugli eventi di un passato risalente alla fine dell’ottocento, e su di una presunta colpa di cui la sua antenata Victoria si è macchiata ai danni della sorella Grace, e a causa della quale, tanto tempo prima, ne aveva implorato il perdono. Così, con l’aiuto del fedele maggiordomo, Mrs Woodhouse ha disseminato la casa di una serie di indizi, fotografie ingiallite, lettere, scomparti segreti, ed una piccolissima guida, che costituirà per Diana lo spunto per un ulteriore viaggio, questa volta in Ceylon, tra un’antica piantagione di tè, inondata dai fiori tipici dell’India, i frangipani, ed all’inseguimento di una farfalla apparsa in sogno. Ma il viaggio sarà anche occasione per il proprio riconoscimento e la propria rinascita. “L’isola delle farfalle” è un racconto godibile, una sorta di cuneo tra letture più impegnative, che regala piccole emozioni e momenti di evasione con la descrizione di bellissimi scenari, attraversati tuttavia da una scia di contrasti etnici e di passioni forti e distruttive. L’autrice, Corina Bomann, conduce fino in fondo il racconto con una certa elegante discontinuità iniziale, per poi stabilizzarsi lungo la traiettoria del doppio binario della narrazione, tra il 1887 ed il 2008. Però. Però, se si butta un occhio a certa narrativa femminile più recente, si può notare come al centro del racconto non manchi mai una qualche sorta di segreto che, all’improvviso, si rende maturo per il suo disvelamento, che è poi il fondamento per un recupero d’identità. E questo segreto affonda le proprie radici in un passato più o meno lontano, meglio se ambientato tra il XIX ed il XX secolo. Persino Antonia Byatt, che considero una scrittrice sicuramente più impegnata, sia per la complessità dei suoi racconti che per la qualità alta della sua scrittura, si è lasciata catturare, con il suo “Possession”, dalla tentazione di condurre la trama sul filo doppio del mistero srotolato tra un passato oscuro su cui far luce ed un presente ancora irrisolto. Una ricorrenza abbastanza stringente da assumere i contorni della serialità. E mentre il giallo segue gioco forza la strada della risoluzione di un enigma (lo svelamento di segreti ne è in qualche modo la caratteristica fondante), con un intrattenimento drammaturgico infarcito di maggiore realismo, la narrativa di cui sopra inclina invece al racconto sentimentale, privilegiando l’introspezione, anche se non mancano le contaminazioni tra generi. Certo, l’agnizione è da sempre stata uno degli elementi portanti dell’elemento narrativo, ma la ricorrenza di trame che riportano questo elemento come centrale potrebbe far pensare ad un desiderio ancora inesausto di esplorazione e di definizione di un’identità femminile, che si avverte tuttora precaria. Si gioca con le ipotesi.