Il giorno che compii otto anni, mio papà mi prese da parte e mi disse che avremmo cambiato casa. Io, come ogni volta, capii e mi misi a ridere. Quando la notte sentivo i rumori che parlavano chiaro, la mattina ero pronto alla recita di papà: ce ne andiamo, prendi su le tue cose, usciamo veloci. Me lo diceva usando pressoché le stesse parole ogni volta, e ogni volta sapevo cosa intendeva e cos’era successo, e lo guardavo in silenzio. In silenzio perché io non parlavo.
Non sono muto: non parlavo; mai. Mio papà, quando deve descrivermi alle persone che incontriamo, per mitigare la mia situazione mi definisce ugualmente “taciturno”, “silenzioso”, “introverso”, e io rido dentro pensando che per descrivere qualcuno che non parla si usano termini tanto verbosi e pieni di lettere.
Per dire la mia prima parola attesi addirittura quasi due anni: era “No”. Non accadde nulla: ogni volta che la dicevo non accadeva nulla. Io dicevo “No” e per i miei genitori era Sì; non volevo qualcosa e loro me lo facevano lo stesso, me lo davano lo stesso, se lo prendevano lo stesso. Il loro No valeva mille volte il mio. Così smisi di dirlo. A quattro anni mi arrabbiai come solo un bambino si sa arrabbiare e pensai: tanto vale stare zitti. E così si chiuse il mio dialogo col mondo. Non sono scemo, eh, nemmeno matto; al massimo un po’ troppo intelligente. Preferisco non dire quel che penso, mai. Non chiedo, non mi lamento, non parlo a sproposito: in fondo sono anche socialmente educato, no?
Dopo un mese che tacevo imperterrito mi portarono dal pediatra, che mi ribaltò su uno psicologo, che mi rifilò a uno psicoanalista: nessuno di loro mi convinse a fonare, uno dopo l’altro confermò la diagnosi. Autismo. Per i miei genitori fu una tragedia, per me la giusta rivincita; oltretutto, standomene zitto, vedevo gli sguardi degli adulti visibilmente intimoriti quando avevano a che fare con me. Piuttosto che doversi confrontare con quel bambino inquietante, sparirono tutti, uno dopo l’altro: zie, zii, nonni, cugini, amici. Quel bambino riccioluto e dalla bocca cucita li metteva in soggezione, dicevano. E così, all’alba dei miei sei anni, la nostra famiglia era ridotta a tre persone per ogni singolo minuto secondo dell’esistenza, e peraltro uno di questi tre rifiutava di esprimersi. Ogni volta che uno dei miei genitori diceva qualcosa era come se un grosso chiodo si piantasse nel muro della giornata: la risposta che riceveva era regolarmente fastidiosa e infastidita, e quando i silenzi si rompevano in scambi di battute troppo lunghi la situazione degenerava in burrascosi litigi tra papà e mamma.
La situazione aveva trasformato casa nostra in una centrale nucleare fuori controllo, e alla fine, come previsto, la nostra vita detonò improvvisamente. La notte prima del mio primo giorno alla scuola elementare, mentre ero in camera mia a giocare, sentii come sempre le urla dalla stanza a fianco; stavolta però il tono era particolarmente feroce, lasciava presagire lo scontro: infatti sentii un rumore di oggetti, di corpi che sbattono, di incidenti tra ossa. Poi, mio papà travolse la porta di camera mia senza dire una parola e, avvolto in un improvviso silenzio, mi caricò sulle spalle ed uscimmo.
Da allora io e lui vagammo di casa in casa, cambiandone almeno una a stagione; di volta in volta condividevamo squallidi appartamenti con personaggi improbabili, e sempre in una città diversa. Non andai a scuola, ma mio papà si occupò di darmi un’istruzione. Cercavamo di cambiare aspetto ad ogni trasloco, per quel che potevamo permetterci. In linea di massima io avevo i riccioli, mentre mio papà teneva i capelli lisci lunghi dietro le orecchie. Non ci assomigliavamo granché, perché io ero molto alto per la mia età – credo, almeno – mentre lui era piccolino e tutto ossa. Inoltre disponevamo, precisamente, di: quattro magliette, due paia di pantaloni, cinque paia di mutande, altrettante di calzini, un paio di scarpe, un giubbotto e una giacca a vento a testa; ogni ipotesi di camuffarsi adeguatamente era improbabile, ma facevamo costantemente del nostro meglio.
Di giorno mio papà mi portava dei libri per imparare a leggere, a contare, a fare esercizi. Non lavorava, di giorno, così stava con me e mi insegnava tutto quello che poteva, mi rovesciava addosso le nozioni base della cultura; e io non avevo nulla da fare se non ascoltarlo in silenzio, come facevo sempre. Riempivo pagine di quaderni con lettere e numeri, zitto fuori ma rumoroso dentro, e così mio papà capiva che io capivo, e crescevamo. La sera mi lasciava quanta più carta possibile sul comodino, mi dava un bacio sulla fronte e mi chiudeva in camera a chiave. Poi diceva due parole di rito al coinquilino del momento e usciva di casa fino alla mattina dopo; non ho mai saputo cosa facesse, lì fuori, con ogni tempo e ogni temperatura; fatto sta che quando tornava, verso le otto e mezza di mattina, aveva sempre due brioche e una pacco di pasta da fare in bianco per pranzo. Le cose sembravano assestarsi in un fragile equilibrio dalla quotidianità placida e senza domande: non sono non le esprimevo a voce, ma persino mi dimenticavo di farne.
Finché, regolarmente, accadeva: una notte il campanello suonava, in qualunque casa in cui ci trovassimo; il nostro coinquilino apriva, qualcuno entrava, corpi sbattevano e ossa facevano incidenti. Poi, la mattina, papà tornava, apriva la porta di camera nostra, si sedeva sul bordo del mio letto con lo sguardo travolto e mi diceva: vestiti, ce ne andiamo. Uscivo dalla stanza e il coinquilino era morto, in una posa suicida che per me aveva lo spessore di una bugia di carta velina. Ci fu Giorgio, impiccato al lampadario; Caio, con i polsi tagliati; Marco Lee, cinese, con un sacchetto di nylon legato sulla testa; Baba, nigeriano, con il cervello sparato contro il muro e la pistola in mano; Anto, giù dalla finestra sul tetto cinque piani più giù. E via così: una scia di morti impressionante, a cui per qualche miracoloso motivo nessun poliziotto ha mai accostato me e mio papà: in effetti, in quelle case, noi non esistevamo. Io non uscivo mai, mio papà viveva di notte, contratti o registrazioni regolari non ne volevamo nemmeno: andava bene così. L’equilibrio, col tempo, si raggiungeva, e il mio silenzio si dimenticava di farmi domande. Per due mesi, forse tre. Fino al calare improvviso di falce: a quel punto ricominciavo a bollire in silenzio e mio papà annegava nel panico; d’altronde solo io sapevo che quei suicidi erano altro, e di parlare non se ne parlava nemmeno. Così, riempivamo i nostri zaini e scappavamo verso una nuova casa.
Fino a quel fatidico compleanno: otto anni e sentirsene cento di più, e non voglio pensare a mio papà. Entrò, un pacchetto ben confezionato stretto con nervo in una mano, lo sguardo pallido e le guance vitree. «Vestiti, è successo di nuovo. Andiamo» e mi tirò su dal letto con la mano libera. Buttò le mie quattro cose nel suo zaino da trekking e fece per uscire di casa; ma prima si affacciò alla porta del bagno per dare ancora un’occhiata alla scena: nella vasca da bagno, come surgelato, fissava immobile il soffitto Barbu, che fino alla sera prima condivideva da vivo gli stessi nostri quattro muri. Nell’acqua galleggiava per metà una stufetta elettrica accesa sulla temperatura più calda, ancora scintillante di corrente bluastra.
Mio papà, ritto con in spalla quei quattro stracci che costituivano il cento per cento della nostra vita materiale, osservava la scena, ma non capiva.
Allora decisi che era troppo.
«Papà», gli dissi, «è agosto».
E lui, voltandosi di scatto per lo spavento, per la prima volta dopo anni, sorrise.