“È probabilmente vero che un uomo rimanga a noi sempre sconosciuto e che ci sia sempre in lui qualcosa che irrimediabilmente ci sfugge”. Non c’è niente da fare. Sisifo aveva ragione, o almeno Albert Camus quando scrive queste parole nel suo Mito. Incomunicabilità nella contiguità. Che assurdità, specialmente oggi, si direbbe, in un mondo in cui tutti sono connessi, socializzano, taggano, postano, linkano, condividono, pinterestano. O forse no. Forse le parole di Sisifo – quelle che sfidarono Zeus e gli costarono la più assurda delle pene – risuonano oggi ancora più sinistre, poiché è in questa vicinanza virtuale così densa che l’assurdo diventa insostenibile. Possiamo infatti sapere cosa un neozelandese ha ricevuto per Natale, che tempo faceva quando un indiano ha preso l’autobus per andare a lavoro (e se si è ricordato di prendere l’impermeabile), se il pancake mangiato a colazione da un californiano era troppo dolce o bruciato, ma non saremo là a scartare il regalo e condividerne la gioia, non ci bagneremo sotto la stessa pioggia e non imprecheremo per il traffico, non divideremo il pancake e non vi aggiungeremo del miele per renderlo più dolce. È proprio “questa densità ed estraneità del mondo, è questo l’assurdo” ricorda Camus. Quanto è attuale oggi questa “pantomima priva di senso” e come la descrive bene 70 anni fa Nathanael West ne Il giorno della locusta. La realtà virtuale e posticcia dei set hollywoodiani degli anni ‘30 fatta di “ranch messicani, capanne polinesiane, ville mediterranee, templi egiziani e giapponesi, châlets svizzeri, cottages scozzesi […] una via del Far West, […] una piazza in stile romanico, […] un tempio greco consacrato a Eros” è metafora del collage di immagini da postare e condividere, un puzzle di tessere scollate, un patchwork impalpabile. Il “morbo di West”, come lo chiamerebbe W.H. Auden, prolifera nei click e nei flash, poiché “gli altri” sembrano esistere “solo in quanto immagini”, foto condivise e mai sfogliate, emozioni rubate e mai vissute. Questa “malattia della coscienza” incolla le dita alla tastiera, gli occhi alla webcam, e “rende incapace di trasformare i desideri in atti di volontà”. Si resta “figure dai gesti legati, dalla volontà paralitica” come i personaggi del teatro di Anton Čechov, i quali, come spiega Angelo Maria Ripellino, “sono estranei l’un l’altro e non sanno comunicare”. I moderni post e status somigliano a quella “incollatura di divergenti soliloqui”, e il “dialogo non è più dunque un tramite di comprensione”, ma una terapia di introspezione, un atto autoreferenziale, un monologo silenzioso. Proprio come quello di Trigorin, ne Il gabbiano, Astrov in Zio Vanja, Epichodov ne Il giardino dei ciliegi.
Che paradosso allora, che assurdità. Cellulari, palmari, tablet, computer per comunicare 24 su 24, per essere sempre presenti, connessi. Comunicare cosa, a chi? Il grado zero della scrittura, quello descritto da Roland Barthes, raggela oggi anche la parola. Si scrive di più, si parla di meno, per vestirsi di pensieri informi, per paura di vedersi nudi, proprio perché, come dice Barthes, “l’uomo è messo a nudo, svelato dal suo linguaggio”. Per esorcizzare questo timore oggi si assiste ad “un’ultima trasformazione: l’assenza”. La scrittura, “un oggetto sociale per definizione”, miscuglio antropologico di aria e carne, si s-materializza sulla pagina virtuale, diventa impalpabile, cancellabile. La parola resta nascosta dietro quel tessuto fragile, il textus. Si fabbricano parole, si veste l’assenza.