Henry David Thoreau percorre in equilibrio instabile il bordo labile fra società e Natura, e alla prima preferisce di sicuro la seconda. In Walden, or Life in the Woods, vive al limite dei boschi, resta ai margini della comunità, presso la fattoria Hollowell che si trova “a circa due miglia dal paese, mezzo miglio dalle abitazioni piu vicine, separata dalla strada principale da un campo vastissimo”. Thoreau per vivere si taglia fuori, diventa un outcast, quasi un eremita che professa la sua religione nei confronti della Natura e ricorda: “andai nei boschi perché desideravo vivere con saggezza, affrontare solo i fatti reali della vita […] e per non scoprire in punto di morte che non ero vissuto […]. Volevo vivere fino in fondo e succhiare tutto il midollo della vita”.
In quei boschi Thoreau cammina, cammina, cammina… Quel suo camminare, quel suo Walking (titolo di un suo saggio sull’arte di camminare), diventa indispensabile per vivere a pieno, un impegno da contrattare, una guida da abbandonare, una fede da pronunciare. Crede che solo “chi sia pronto a lasciare padre e madre, fratello e sorella, moglie, figli, amici, e non vederli mai piu, chi ha pagato i propri debiti, fatto il testamento, e sistemato i suoi affari, sia un uomo libero pronto camminare”. Solitudine quindi, ma solitudine fra i boschi, popolati di metafore che rimandano alla selva interiore, quella oscura di Dante. Per il filosofo americano camminare è metafora geometrica, quella di una linea fra sé e il resto, lontano dalla civiltà, dentro la wilderness. Vita è lo stato selvaggio, la libertà pura: “l’uomo più vivo”, dice, “è quello più selvaggio”. Camminare, quindi, come atto volontario, d’avventura, liberatorio, una “nobile arte” cui non tutti sono portati. Ambulator nascitur, non fit.
Charles Baudelaire, come lui, ha bisogno di camminare per vivere. Alla Natura, il poeta francese preferisce però Parigi. Per lui Walking si chiama flânerie, vagabondare per le strade della capitale francese diventando un tutt’uno con la folla. Se Thoreau ripudia la moltitudine, Baudelaire ne gioisce. Per lui arte nobile non è solo camminare, ma “godere della folla” e pochi riescono a “fare un bagno nella moltitudine” e riuscire a restare nello stesso tempo vivi, asciutti, soli. Già perché “moltitudine, solitudine sono sinonimi, termini intercambiabili dal poeta attivo e fecondo”. Per Baudelaire “chi non sa popolare la sua solitudine non è in grado neanche di essere solo in una folla indaffarata”.
Essere soli, lontani, e comunque a casa in un posto nel mondo, fruitori nascosti e gaudenti di uno spettacolo unico, quello della folla, fucina elettrica di vibrazioni vitali. Come Baudelaire spiega in Les Foules, il flâneur, ovvero “il vagabondo solitario e riflessivo, trae un particolare piacere da quella comunione universale […]. Sposa la folla e conosce godimenti febbrili, negati agli egoisti, rinchiusi in uno scrigno, ai pigri, rintanati come molluschi. […] Come le anime erranti che cercano un corpo, il poeta-flâneur entra quando vuole nelle persone che incontra”. E allora l’amore diventa “ben poca cosa […] se paragonato a questa orgia ineffabile, a questa santa prostituzione dell’anima che si dona completamente […] allo sconosciuto che passa”.
Camminare, vivere quindi, in America come in Francia, nei boschi come nello spleen parigino. Instabilità fisica e spazialità in movimento. Variabili costanti di una formula imperfetta e finita.